Giuseppe Piccioni


“Con Chiedi la luna, dieci anni fa esatti, andai a Venezia alla chetichella e il film fu accolto benissimo in Sala Grande, si trattò di un’occasione felice. Due anni dopo ritornai con Condannato a nozze e provai qualche amarezza. Essere di nuovo alla Mostra, anche se per la terza volta nella Selezione ufficiale, non è per me così normale, lo vivo come una maturazione. E poi per me che sono un piccolo provinciale rappresenta un evento importante. Certo può essere una cosa bellissima, come un grande agguato. Staremo a vedere”.
Se si guarda ai premi conquistati da Fuori dal mondo dentro e fuori Italia (David di Donatello, Ciak d’Oro e Premio Casa Rossa, riconoscimenti al Festival di Montreal, di Chicago, di Los Angeles) viene da pensare che forse per Giuseppe Piccioni è l’occasione buona con Luce dei miei occhi per aspirare a un Leone e dintorni.

Come è nato Piccioni questo tuo settimo film?
Avevo voglia di una storia ambientata a Roma, che avesse come protagonisti i personaggi che mi piace raccontare. Persone fuori posto, un po’ fuori del mondo, persone di cui potresti leggere qualcosa nei rotocalchi, nei settimanali. Antonio è un autista, sempre in viaggio, e la sua passione per la fantascienza è insieme il desiderio e l’impossibilità di essere con gli altri. Maria vorrebbe essere diversa da quello che è, una madre migliore, ma non riesce. Non sono dei vincenti, somigliano ai personaggi di certi vecchi film di Jean Renoir o del realismo poetico di Marcel Carné. Personaggi che lottano contro il proprio destino avverso, che non riescono a nascondere il tentativo di trovare altrove qualcosa per sè. Esistenze che nella loro tristezza e nel loro disincanto, si aggrappano alla prima occasione di felicità. La vita vera, quella di tutti i giorni, è sempre molto diversa dalla versione spettacolarizzata, oggi prevalente. A modo loro, i due protagonisti Antonio e Maria nell’infinitamente piccolo acquistano una grandezza.

E’ solo il racconto di una storia d’amore tra due strani personaggi?
Innanzitutto è questo, ma non mancano delle risonanze. Non solo il disagio, la solitudine e la grande città, ma anche questa “luce degli occhi”, che è in fondo un’idea di speranza, un progetto di felicità che appartiene un po’ a tutti i personaggi che abitano la storia. Maria è una donna strana, capitata un po’ per caso a Roma, che lotta contro la sfortuna e pensa di essere una persona sbagliata, che fa scelte errate e l’unico legame che ha con il mondo è la figlia undicenne. Antonio non ha mai messo radici a Roma, che si presenta come una città di passaggio, ma dove la precarietà diventa una condizione normale di vita. Nonostante il suo interesse per la fantascienza e questa lontananza dalla vita reale, Antonio, attraverso l’incontro con Maria, si trova a sporcarsi le mani, a essere dentro le cose, ad avere un rapporto più concreto. Torna per così dire sulla terra.

Una Roma poco accogliente e ostile è lo scenario?
Una Roma un po’ milanese, fredda, meno accomodante rispetto a quella a cui ci hanno abituato diversi film. La città è vista attraverso lo sguardo insolito di Antonio, non ha una caratteristica sociologica ben definita. Non è la città monumentale, e neppure eccentrica o inedita. E’ la Roma di piazza Vittorio, del quartiere Esquilino, del Villaggio Olimpico, dei quartieri satelliti che girano intorno al centro.

Come è avvenuta la scelta dei due interpreti principali?
Ho apprezzato Sandra Ceccarelli, vedendola per la prima volta, tre anni fa, in un film, presto dimenticato, che mi piacque molto. Era Tre storie di Piergiorgio Gay e Roberto Sampietro, un’opera prodotta da Ipotesi Cinema. Da subito mi misi in contatto con Sandra e venne coinvolta nel progetto di questo film, quando ancora la sua partecipazione era incerta. Luigi Lo Cascio l’ho scoperto in un trailer de I cento giorni visto alle Giornate professionali del cinema, interpretava un personaggio sulla corda, sui nervi ben diverso da Antonio. E non dimentichiamo Silvio Orlando che rappresenta la continuità, interpreta il cattivo per eccellenza, ma affidandomi a lui so di non correre il rischio del cliché, di civetterie del film di genere.

Che cosa hai chiesto al direttore della fotografia e all’operatore di macchina?
A differenza di Fuori dal mondo, ho voluto uno stile asciutto. Ho usato la macchina da presa con l’intento di restituire un movimento che non va da nessuna parte, un movimento circolare. Nel contempo ho alternato momenti in cui la camera rimane ferma, come se ci fossero di tanto in tanto delle intermittenze di realtà. Abbiamo inoltre usato spesso ottiche lunghe per rendere sempre meno definito il paesaggio, soprattutto quando il film è scandito dal racconto di fantascienza che fa da controcanto alla vicenda reale. Abbiamo lavorato molto con lo scenografo perché la distanza tra la macchina da presa e la scena fosse accentuata, utilizzando vetrate di bar, di fast food, di case. Come se i personaggi fossero imprigionati nel loro mondo quotidiano.

E alla musica che cosa hai chiesto?
Ho fatto tesoro dell’esperienza maturata con Fuori dal mondo. Così Ludovico Einaudi non ha composto a misura delle sequenze realizzate, ma ha cominciato a farlo fin dal primo momento in cui si è trovato tra le mani la sceneggiatura. Ha creato motivi e arie indipendenti dal mio lavoro, e alla fine i suoi componimenti musicali si sono rivelati in gran parte in sintonia con l’anima del film.

E il titolo?
E’ stato scelto quasi subito, già durante la prima versione della sceneggiatura. Un titolo rievocativo, che annuncia qualcosa di riconoscibile, ma che può essere interpretato perché non è chiuso in se stesso.

Come potrebbe essere classificata la tua cinematografia?
Non sono arrivato al cinema con un approccio da professionista, nel senso di colui che mette in scena copioni scritti da altri. Ho sempre avuto il bisogno di essere personale, ma non necessariamente marginale, di nascondermi dietro una storia che dia suggestioni. Non mi appassiona, non seguo la liturgia del cinema d’autore. Il mio rapporto con le immagini è legato alla narrazione. Non riesco a realizzare film di argomenti, e poi non ho dei riferimenti chiari, neppure dei padri ai quali affidarmi. Amo Paolo Pietrangeli, ma non potrei mai avere quel suo dolore acre, e poi il primo Pietro Germi di Il ferroviere e L’uomo di paglia e ancora Federico Fellini fino a Otto e mezzo. Faccio parte di una generazione che ha incontrato il cinema indipendente americano degli anni Settanta, che riusciva a parlare di e a noi, voglio dire i film di Martin Scorsese, John Cassavetes, Bob Rafelson, anche se poi il loro modo di fare cinema non mi corrisponde. E poi amo Francois Truffaut, le sue parole, la sua capacità di costruire dialoghi e quella di scrivere sul cinema. E perché no anche il primo Olmi. Ho rivisto Il posto, un film straordinario.

Un desiderio per il Concorso veneziano?
Mi auguro prima di tutto che Venezia serva a fare andare bene il film in sala. E il clima sembra favorevole, perché il cinema italiano di qualità si è comportato più che bene al botteghino.

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