“L’amore probabilmente… ma avrei potuto intitolarlo anche il cinema probabilmente: questa arte o mestiere che, compiuti cento anni, non sa più chi è e non sa ancora cosa farà”. Così Giuseppe Bertolucci parla del suo nuovo film che aprirà la kermesse veneziana in concorso nella sezione “Cinema del presente”. L’amore probabilmente, girato tra Lugano, Lucca, le cave di marmo della Garfagnana e Cinecittà è un film di riflessione sull’atto creativo, sul meccanismo della rappresentazione, affidato alle tre diverse stazioni toccate da una giovane allieva di una scuola di recitazione. L’amore probabilmente tenta di raccontare, mescolando vero e falso, il viaggio di Sofia alla scoperta di sè come donna e come attrice, un’iniziazione artistica e insieme sentimentale.
Come in Il dolce rumore della vita di nuovo un’attrice al centro della storia narrata?
L’idea del film è nata due/tre anni fa, mentre realizzavo e portavo a termine Il dolce rumore della vita. I due film sono nati in parallelo: lì l’attrice/protagonista era interpretata da Francesca Neri, qui da Sonia Bergamasco, ma con due intenzioni differenti. In Il dolce rumore della vita c’era il desiderio di misurarsi con il melodramma, qui invece mi interessa raccontare un’attrice che muove i primi passi, che si trova di fronte al momento importante in cui si deve misurare il personaggio. Ma protagonista potrebbe essere anche un autore, un regista. Il fatto è che per l’attore il problema artistico ed espressivo è più diretto, perché mette in gioco il suo corpo. Davanti a sé ha tre strade possibili, raccontate in L’amore probabilmente: quella di negare se stesso, la persistenza dell’io e infine la strada dell’illusione.
La protagonista Sofia, giovane allieva della scuola di recitazione, durante il suo percorso di formazione scopre e incontra tre grandi interpreti: Mariangela Melato, Stefania Sandrelli e Alida Valli. Rappresentano veramente tre diversi modi di essere attrice?
Con la Melato e la Valli ho fatto tre film, sono parte della mia esperienza, con loro ho una complicità che dura da anni. Tre interpreti emblematiche di diverse categorie: la menzogna, la verità, l’illusione. Tre attitudini differenti: la Melato è il massimo della teatralità, per lei la rappresentazione è finzione e la finzione è menzogna: chi non sa mentire non può fare l’attore. La Sandrelli è invece il massimo della spontaneità, per lei l’attore non può che recitare se stesso. Dunque l’esatto contrario, perché di fronte alla macchina da presa è impossibile fingere. La Valli infine è il massimo dell’illusione, per lei il segreto di un attore è l’ambiguità: quando menti deve sembrare che dici la verità e quando dici la verità deve sembrare che stai mentendo. Ho conosciuto la Valli quando ho fatto l’aiuto-regista di mio fratello Bernardo in La strategia del ragno, lei è l’unica star del cinema classico. Di star così oggi non ne esistono più nel tempo della televisione che consuma tutto, star mitologiche che non sembrano appartenere a questo mondo. In L’amore probabilmente la Valli viene evocata attraverso una presenza “rubata” a un altro film, Eugenia Grandet di Mario Soldati.
In quale delle tre dimensioni si riconosce?
In tutte e tre, perché sono legittime e possono essere compresenti in un’unica opera. Rappresentano delle possibilità a cui riferirsi.
Ma il suo film è anche un tentativo di ragionare sulla rappresentazione teatrale e quella cinematografica?
Il film è diventato sempre di più nelle riprese e nel montaggio una testimonianza sul processo creativo, del work in progress. A parte i tre capitoli appena citati, il film è poi diventato un’opera che si guarda continuamente allo specchio, un’autoriflessione sul suo farsi forse per un vitale bisogno d’identità.
Sonia Bergamasco, la protagonista , ha soprattutto un ricco curriculum teatrale. Come è stato il suo rapporto con la macchina da presa?
La separazione tra teatro e cinema aveva motivo di esistere quando c’era una teatralità paludata. Ora gli attori vivono in un altro clima e sono disponibili verso il cinema in modo diretto. Non ci sono più problemi di passaggio dal cinema al teatro. Sonia ha un talento raro di cui sono molto soddisfatto. Sarà la scoperta di quest’anno. Lei è nota a un pubblico più ristretto per aver lavorato due anni ne Il Pinocchio di Carmelo Bene. Con lei vale proprio quell’espressione così abusata “Il regista ha inventato l’attore”, nel senso dell’origine latina del termine “inventare”, cioè trovare. Ecco io ho avuto la piacevole e interessante sensazione di trovare prima di tutto qualcuno, e poi di poter disporre di un materiale prezioso, ricco di forti tensioni.
E’ la sua opera prima in digitale e l’ha definita un’esperienza appassionante e liberatoria fino a dire “La caméra stylo sognata da Astruc e Cocteau è finalmente realtà”. Entusiasmo eccessivo?
Il fotografo Cianchetti, lo scenografo Silvestri ed io abbiamo sperimentato insieme, per capire dove ci portava il digitale. Non voglio mitizzare il digitale, però usato in un certo modo e non come avviene per i prodotti industriali sofisticati, offre enormi spazi di libertà creativa rispetto alla tradizionale “macchina cinema”. Tra le novità più significative, il superamento del decoupage, quel pensare e progettare il film prima a tavolino. La tecnologia di queste piccole e agili PD100 della Sony consente di girare ad libitum, facendo saltare la vecchia progettualità delle sequenze. Un altro nodo che viene sciolto è quello della proporzione dei tempi di una giornata tipo sul set, cioè si modifica il rapporto tra tempo di preparazione dell’allestimento, in particolare luci e trucco, prima corrispondente al sessanta/settanta per cento, e il tempo delle riprese, il restante trenta. Assistiamo a un rovesciamento e il tempo di ripresa finisce per essere totale e di conseguenza il rapporto con gli attori più ricco. Ora con queste maneggevoli cineprese digitali è possibile girare senza luci cinematografiche. Sono lo strumento ideale per raccontare con il massimo di disinvoltura e agilità situazioni dal vero, come se ci trovasse a realizzare un reportage documentaristico.
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