Giuseppe Bertolucci


G. BertolucciInaugura il nuovo canale tematico Sky Cinema Classics, ma anche l’attività di una nuova produzione, la Rea Blu, Il cinema ritrovato: istruzioni per l’uso, il documentario di Giuseppe Bertolucci che sarà proposto a Venezia 61 il 3 settembre accoppiato con Il vigile di Zampa. Girato a Bologna, nei giorni del festival omonimo organizzato dalla Cineteca di Bologna, che da diciotto anni porta in città film del passato e personalità del mondo degli archivi suscitando un grande interesse negli appassionati e nel pubblico, il documentario raccoglie testimonianze di cineasti e studiosi: da Peter Weir a Christopher Chaplin, da Bernard Eisenschitz a Joao Bernard DaCosta, da Giampiero Brunetta a Dominique Paini, da Michel Ciment e Adriano Aprà a Mario Monicelli e Luciano Berriatua.

Che cosa ha scoperto parlando con gli appassionati della vecchia pellicola infiammabile: archivisti, collezionisti, storici e restauratori?
Molte cose curiose. Per esempio, Joao Bernard Da Costa, della Cineteca di Lisbona, mi ha rivelato che le prime cineteche nacquero già negli anni ’30, con l’avvento del sonoro. L’industria tendeva a rottamare il film muto, ma alcuni illuminati tentarono di impedirlo. L’italiano Tortolina, invece, mi ha spiegato come il cinema americano indipendente degli anni ’70 si sia conservato attraverso le copie pirata in 16 mm che i cineclub italiani importavano clandestinamente.

Il festival bolognese ha la capacità di portare Lubitsch in Piazza Maggiore; l’edizione restaurata di “Aurora” di Murnau è stata quest’estate un piccolo successo al botteghino. C’è interesse per il cinema antico.
Sì e questo dimostra che la cultura di massa non è necessariamente degrado. È la tesi del film: il XX secolo, con la riproducibilità tecnica, può monitorare tutto quello che succede, ma il continuo consumo di storie e notizie distrugge il tempo e tende alla cancellazione del passato. Tutto è presente e tutto svanisce. Così i politici di oggi possono dire una cosa in tv e, il giorno dopo, l’esatto contrario.

Il documentario celebra anche un centenario, quello del cinema del 1904.
Abbiamo pensato di inframmezzare le interviste con frammenti presi dalla Cineteca, scegliendo quelli di cent’anni fa. È come una città che riemerge: è un cinema di attrazione fatto per stupire il pubblico delle fiere e non un cinema narrativo. Ma ha il sapore della reliquia salvata a un naufragio.

Il digitale garantisce una conservazione del cinema che alla pellicola era negata. Eppure suscita resistenze.
Le resistenze hanno sempre accompagnato le rivoluzioni tecnologiche e industriali. Il passaggio dal muto al sonoro, per esempio, metteva fuori gioco intere generazioni di attori che non sapevano parlare; così l’Avid ha soppiantato il montaggio tradizionale e mandato in pensione tanti tecnici. Ma il digitale offre straordinarie possibilità.

Quali?
Oltre alla permanenza, la leggerezza. Il digitale è democratico, anche se non si può paragonare il modo di produzione di Guerre stellari con quello di un ragazzo che va in giro con la sua Sony.

Sta lavorando a un nuovo film dopo “L’amore probabilmente”?
Sì, un film sui Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, ne esistono cinquanta versioni televisive ma neanche una al cinema.

È difficile produrre un cinema sperimentale come il suo, così vicino al teatro?
In questo momento, in Italia, è difficilissimo fare cinema indipendente. C’è la Medusa e ci sono i poteri televisivi, ma il blocco dei contributi dello Stato e l’ingresso della nuova legge hanno mandato a gambe all’aria tantissime società. È una crisi gravissima: vedremo se sarà ristrutturazione o morte.

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02 Settembre 2004

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