È stata ed è rimasta una leggenda, La Valanga Azzurra – definizione coniata dal “Corriere della Sera” e poi resa pop da “La Gazzetta dello Sport”, con cui si identifica la Nazionale italiana di Sci Alpino che negli Anni ’70 ha riscritto la Storia dello sport, basti pensare alla conquista delle cinque Coppe del Mondo e alle svariate medaglie tra Olimpiadi e Mondiali, e grazie a cui lo sci, sport d’élite fino a quel momento, diventa sport di massa.
Giovanni Veronesi, regista e “sciatore fallito”, sportivo che quella Valanga l’ha sfiorata a suo modo, e per cui “c’è la neve nei miei ricordi, c’è sempre la neve, mi diventa bianco il cervello se non la smetto di ricordare” – dice nel film, racconta sul grande schermo un mito umano, ricordando il contraddittorio ma fondamentale ct Mario Cotelli, “padre” di campioni come Gustavo Thoeni e Piero Gros: è un documentario sull’Olimpo dello sport, la cui essenza nasce dal profondamente umano, dal contrasto tra i caratteri ai sacrifici personali e collettivi, dalle rivalità interne all’affermarsi dell’invincibile, non senza zone d’ombra che lambiscono il tragico, come la pallottola di Paolo De Chiesa.
“Io pensavo già di conoscerli, fin da piccolo li guardavo sciare, e così ero illuso che anche loro conoscessero me, mentre invece ho dovuto farmi conoscere, fargli capire che avessi la loro stessa passione, ma sono entrato nelle loro vite facilmente, molto più di quando racconto un film di finzione, perché qui è vita… Conoscerli è stata davvero un’emozione: quando ho lavorato con De Niro non ero così emozionato, facendo io il regista sembrava più naturale conoscere un attore… ma Gustavo Thoeni, Piero Gros, quando mai li avrei incontrati???” racconta Veronesi al debutto alla Festa di Roma. Il regista ha cercato un tono soggettivo, intimo, appassionato, informale e giocoso, perché “l’irriverenza mi piace: rende umani i miti. Thoeni era una sorta di reliquia per me e invece, quando l’ho conosciuto, abbiamo bevuto la birra insieme e giocato a scacchi, qualcosa di inimmaginabile. Ci voleva un po’ di irriverenza e incoscienza per fare questo film”.
È appunto lo stesso Veronesi – un passato da aspirante campioncino – a narrare la gloria e il declino, prestando al suo film i suoi filmini di famiglia con lui bambino e la sua voce adulta vibrante d’affetto, che si tesse con quelle dei protagonisti che in prima persona hanno scritto un’epopea sportiva sul candido manto bianco infiammato da loro di talento, competizione e vittorie, ma anche bruciante di palpito emotivo, spiritualità e paure: “lo sci, per me, è sempre stato un momento di espressione, di liberazione, come l’arte del resto, il cinema”, continua Veronesi nel suo racconto – colonna vertebrale del film, definendo questo doc “la mia ultima avventura sugli sci”, parole di disarmante tenerezza, accanto a cui apre il varco alle memorie altrui, in primis quella del giornalista e scrittore Lorenzo Fabiano, per cui La Valanga Azzurra “…era un sogno, siamo stati una generazione che in camera ha messo i poster degli sciatori … è stato uno dei rari momenti in cui la scena non se l’è presa il calcio”, parole che aprono riflessioni sociologiche a ben vedere; e poi Veronesi arriva là sullo Stelvio a cercare lui, timidissimo all’inverosimile quanto capace di aver “inventato un nuovo modo di sciare” perché “la sua non era solo una discesa, era una danza”, ovvero Gustavo Thoeni, che guidò per circa dieci anni la squadra di sci più forte del mondo, che per 69 volte salì sul podio, e che Roma ricorda che con Gros “la rivalità c’era perché ognuno cercava di essere più veloce dell’altro, e l’allenamento insieme era un grande stimolo, ma poi in gara è uno sport singolo. Se vince l’altro ci si arrabbia, sì, ma con se stesso”.
E poi c’è “Pierino”, l’uomo che fu quel fanciullo spettinato da un paesello del Piemonte, ovvero Piero Gros, nel doc ricorda di aver: “cominciato a sciare con uno sci solo, trovato nel fienile di un mio zio”. Mentre alla Festa, sulla rivalità con Thoeni, non ha dubbi che sia “una risorsa nello sport, dove però c’è anche amicizia e rispetto: sono regole, che se mancano non capisco il senso dello sport. Uno non può pensare di vincere in eterno, ciascuno ha la sua storia: una volta lo sport era basato sul talento, adesso sulla prestazione fisica. Io ho vinto le cose importanti ma soprattutto ho vissuto quell’Era, non solo della squadra italiana: il privilegio è fare quello per cui ti sei preparato, è stato qualcosa di grande, come vestire la maglia azzurra, ecco perché c’era un entusiasmo di squadra”.
E sul “fenomeno” dice la sua anche De Chiesa, per cui la Valanga Azzurra è stato “un caso irripetibile, anche perché erano altri tempi: Gustavo e Piero sono l’emblema, poi la squadra s’è formata man mano, creando un’epopea dello sci. Credo una squadra così forte, oggi, richiederebbe un organigramma incredibile: già al tempo Cotelli fu bravissimo; sarebbe bellissimo si ripetesse, e oggi c’è una compagine eccezionale – molto al femminile – ma sono loro… un’altra cosa”.
Per Veronesi, “ci sono delle parabole nelle sport e credo che in quel periodo il modo di sciare cominciasse a cambiare: le curve si affrontavano in un altro modo, gli sci si tenevano più paralleli… Credo che alchimie come quella della Valanga Azzurra siano irripetibili: non credo oggi si potrebbe ricreare quella lunga leggenda, durata oltre 10 anni, e penso sia valsa la pena fare il doc perché era doveroso rendere loro omaggio”.
Il docufilm è scritto da Lorenzo Fabiano, Domenico Procacci, Giovanni Veronesi e Sandro Veronesi, con la consulenza di Luca Rea: è una produzione Fandango e Luce Cinecittà in collaborazione con Rai Documentari, in uscita nelle sale il 21, 22 e 23 ottobre distribuito da Fandango Distribuzione, per cui, per Procacci, già produttore di Una squadra, sul gruppo italiano della Coppa Davis, “il racconto sportivo ha una grande potenzialità. Penso ci sia spazio per storie di sport o per storie che poggiano sullo sport”.
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