“Contenta che venga apprezzata un’opera prima, perdonando gli eventuali difetti che può avere”. Così Giorgia Farina commenta il Globo d’oro appena vinto con Fabio Bonifacci per la sceneggiatura di Amiche da morire, film che segna il suo esordio dietro la macchina da presa e che l’ha vista dirigere tre attrici come Claudia Gerini, Sabrina Impacciatore e Cristiana Capotondi. Ospite dell’Ischia Film Festival, la giovane regista romana con un background americano (il master in regia e sceneggiatura alla Columbia University e una passione smodata per Quentin Tarantino) ci racconta, tra le altre cose, la soddisfazione di aver sdoganato l’aggettivo “nero” in un’Italia che fatica a finanziare progetti non omologati: “Mi raccomandavano di non dire che la mia era una ‘black comedy’, e non capivo perché”.
Adesso l’ha capito?
Sì, ma continuo a non condividere il pregiudizio per cui l’aggettivo ‘nero’ debba spaventare il pubblico. Il noir si può parodiare e può far ridere di gusto, invece. Con Amiche da morire abbiamo dimostrato che ci si diverte anche a guardare qualcosa di diverso: la combinazione commedia e noir funziona.
Ha intenzione di proseguire lungo questo binario?
In effetti sto scrivendo un’altra commedia cattiva, nera, senza personaggi facili e bidimensionali come ci ha invece abituato una certa commedia infarcita di clichè. E pur non essendo un film esclusivamente al femminile, ci sono ruoli importanti per le donne.
Cinema femminile in Italia: perché è ancora così poco diffuso?
Forse perché la maggior parte dei registi sono uomini e per il pregiudizio che la regia femminile implichi per forza storie sentimentali, ma donna non è sinonimo di melodrammatico, tanto meno di noioso: il cinema femminile è anche intrattenimento, commedia, pulp, film di genere.
Cosa cambia in un film se a dirigerlo è una donna?
Credo ci sia più sensibilità, attenzione ai dettagli, e un approccio diverso con cast e troupe. Anzichè urlare sul set, magari hai un atteggiamento più materno verso il lavoro che stai realizzando e le persone che ti circondano. Per intenderci, non bisogna comportarsi da uomo per ottenere il rispetto: vanno bene anche la dolcezza o le maniere gentili, basta tirare fuori le peculiarità femminili e trasformarle in punti di forza.
Ha mai colto tracce di maschilismo sul set?
A parte che sono anche io sono un maschiaccio, ma con la troupe, praticamente tutta maschile, mi trovavo benissimo: in un’opera prima il più forte pregiudizio è sulla competenza, non tanto sul genere. Magari perché l’attrezzista ha fatto cento film e tu stai al primo. Però io con umiltà mi rivolgevo a tutti chiedendo una mano, soprattutto al direttore della fotografia, e non ci sono stati problemi. Il maschilismo lo vedo più nella critica, o in un tipo di pubblico intellettuale che magari diffida di un nome femminile dietro la macchina da presa.
Dirigere tre donne contemporaneamente: qual è il limite?
Non ce n’è, nel senso che era impossibile contenerle, tre scatenate con una carica di energia inesauribile. Poi Claudia e Sabrina già si conoscevano, e in generale tutte e tre amavano i loro personaggi, quindi tra loro non c’era invidia e nessuna faceva bizze o capricci.
Le piacerebbe tornarci a lavorare?
Moltissimo e non trovo sbagliato dirigere le stesse interpreti per più film, certo occorre aspettare e vedere a fine stesura quale sarà la più giusta per un ruolo. Personalmente già in fase di scrittura mi capita di pensare a dei volti: un personaggio diventa umano quando gli dai una faccia, altrimenti resta solo una sagoma grigia che ha poco senso.
Per il suo nuovo film è già in contatto con gli stessi produttori di “Amiche da morire”?
Ne abbiamo parlato e sono molto interessati: mi sono trovata benissimo con loro, essendo i figli di Sergio Leone hanno un amore speciale per il film e ti danno un supporto non solo economico. Trovavo preziosi i loro consigli, soprattutto in un paese dove i giovani registi vengono spesso lasciati allo sbando.
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