Gianni Amelio: “Nell’Algeria di Camus la mia infanzia”


BARI. “E’ un miracolo che sono qui, non è stato un film facile” dice al pubblico del Teatro Petruzzelli. Gianni Amelio presenta in anteprima europea al Bif&st Il primo uomo, nuova regia dopo La stella che non c’è del 2006, mentre è anche direttore artistico del Torino Film Festival. Cinque anni di preparazione per un film girato in Algeria, ma i cui sopralluoghi sono stati prima in Marocco e poi Tunisia. Il primo uomo avrebbe dovuto essere in concorso alla Mostra di Venezia, poi l’inaspettata collocazione Fuori concorso che il produttore francese non ha accettato. Così sono arrivati il Premio Fipresci e quello del pubblico al Festival di Toronto.

 

Il film, in sala il 20 aprile con 01, è tratto dall’omonimo libro incompiuto del premio Nobel Albert Camus, figlio di una modesta famiglia di ‘pieds-noirs’ e vissuto in Algeria fino ai 27 anni. Il primo uomo è un’autobiografia iniziata nel 1959 nel pieno del conflitto franco-algerino, un libro tutto algerino a differenza di quelli scritti da Camus in precedenza e uscito postumo grazie alla figlia.

Amelio ci racconta il viaggio denso di emozioni dello scrittore francese in Algeria – nel libro si chiama Cormery – con l’intento di ricostruire, attraverso i ricordi chi l’ha conosciuto, la figura del padre morto in guerra quando lui era appena nato. Il protagonista, ritrovando la madre amata, ripercorre parte della propria vita: l’infanzia povera, la scuola e il maestro che ha creduto in lui, gli amici di allora. Soprattutto si confronta con la ribellione degli algerini contro il colonialismo francese, coinvolto in prima persona in accuse e polemiche da destra e da sinistra sulle sue posizioni politiche.

Nel cast del film, una coproduzione italo-francese, presenti Cattleya e Rai Cinema, troviamo Jacques Gamblin, Maya Sansa, Catherine Sola, Denis Podalydès, Ulla Baugué e Nicolas Giraud.

E’ stato un progetto complicato da realizzare?
La figlia Catherine Camus da anni rifiutava una versione cinematografica del libro. Sono riuscito a convincerla, anche se lei si è riservata di dare il consenso non alla sceneggiatura ma solo a film finito. Fondamentale il suo aiuto perché lei, avendo decifrato la scrittura fitta e senza punteggiatura del manoscritto, è stata la fonte primaria.

Come ha affrontato questo testo autobiografico?
Nessuno può fare la biografia di un altro se non ci si riconosce. Ho cercato di capire e condividere la vita di Camus. In fondo sono stato scelto per questo film poiché ho avuto un’infanzia simile a quella di Cormery/Camus. Anch’io ho ‘perso’ il padre, che è partito per l’Argentina e l’ho conosciuto solo 17 anni dopo. E poi ho vissuto con mia madre, mia nonna e uno zio, presenze così simili a quelle narrate nel libro. Il suo maestro è il mio maestro e mio figlio albanese quand’era piccolo era vestito come Cormery bambino.

Si è avvalso della consulenza di uno storico nell’affrontare un periodo così complesso?
Me l’hanno proposto ma ho rifiutato. Mi sembrava una vigliaccheria, tanto più che la storia ha un protagonista che ha realmente vissuto. Così mi sono documentato sulle vicende dell’Algeria, non solo negli anni ’50.

Come si è rapportato con il pensiero di Camus nei confronti della lotta di liberazione del popolo algerino?
Penso di non averlo mai tradito e perché non avvenisse ho attinto direttamente ai suoi manoscritti. Così nella scena del messaggio di Cormery alla radio, ho restituito la vera frase rivolta agli algerini e non quella semplificata e dunque male interpretata da molti: “Io vi dico che mia madre è stata vittima dalle stesse ingiustizie e sofferenze che vi hanno colpito. Se nella vostra follia voi le farete del male io sarò vostro nemico”.

Il suo film risponde a chi ha accusato Camus di ignavia, di favorire con le sue posizioni la destra francese colonialista?
Sì. Il suo nome per alcuni anni è stato impronunciabile e perciò nel film ho inserito i personaggi del padre e del figlio arabi, che non ci sono nel libro. Così come per ben tre volte Cormery rivendica nel film la sua appartenenza all’Algeria. Sua è la frase: ‘Nella faccia di un algerino ho riconosciuto il mio paese più che in quella di un francese’.

Quale è la posizione di Camus rispetto alla lotta del popolo algerino per l’indipendenza?
E’ per una ricomposizione politica del conflitto, per una coesistenza tra i due popoli, non giustifica né il colonialismo né il terrorismo. Ho cercato anche di evitare una visione nostalgica del passato, perché molti, non capendo il libro, si sono soffermati sugli anni ’20 quando le diverse etnie vivevano in pace. In verità i germi dell’oppressione e della ribellione esistevano già alla fine ‘800.

Qualche libertà che si è concesso rispetto al romanzo?
Il maestro Bernard parla in tutt’altro modo, come quando afferma che tra Roma e i barbari si può stare dalla parte dei barbari.

La scena in cui il bambino legge alla nonna le didascalie del film muto è una citazione del libro?
In parte, vi sono poche righe. Anche qui il caso ha voluto che io bambino mi ritrovassi in quella stessa situazione e ho ripreso quel che accadde dopo. Io non capii il film che non piacque a mia nonna. E all’uscita dalla sala lei mi disse “Non ti porto più al cinema, questa estate vai a lavorare”.

Come ha scelto le due attrici per i ruoli della madre anziana e della nonna?
Non è stato facile. Per il ruolo della madre anziana, analfabeta e donna di servizio, la figlia di Camus non voleva un’attrice che sfilasse sul tappeto rosso, per lei non sarebbe stato credibile. Così ho voluto Catherine Sola. Più complicata la scelta della tedesca Ulla Baugué. All’inizio la nonna doveva essere Hélène Surgère, attrice di Salò di Pasolini e Corpo a cuore di Vecchiali, ma una settimana prima è stata chiamata dalla Comédie francaise. Per fortuna Catherine Sola conosceva la mamma di un’attrice sua amica, un’artista che veniva dal teatro e non aveva pressoché esperienza di cinema. Ma è andata bene e poi ricordava così tanto la mia nonna paterna.

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