TORINO – Un viaggio in treno attraverso l’Europa, un gruppo di spie comuniste e fasciste invischiate in una lotta paranoica per la sopravvivenza ideologica e personale. L’opera prima di Gianluca Minucci, Europa Centrale, presentata nel Concorso Lungometraggi del 42° Torino Film Festival, è un thriller da camera, ricco di violenza fisica e psicologica e caratterizzato da un originale taglio espressionista. Un grande cast internazionale – Paolo Pierobon, Tommaso Ragno, Catherine Bertoni de Laet, Matilde Vigna, Levente Molnar, Angelica Kazankova – al servizio di un intreccio che riporta le tensioni politiche della Seconda Guerra Mondiale nello spazio chiuso e claustrofobico di un treno in viaggio.
Gianluca Minucci, la sua opera prima è un film coraggioso dal punto di vista registico: il formato quasi quadrato, i tagli di luce, le inquadrature strette, il montaggio ridotto all’osso. Perché la scelta di raccontare questa storia in questo modo specifico?
Sono un cefalgico, soffro di emicrania a grappolo. L’idea era di fare un film sotto emicrania. Chi ne soffre sa che tutti i sensi sono amplificati, per questo la scelta dell’espressionismo. Chi è emicranico parla in maniera scattosa, sincopata, ha difficoltà a vedere le luci, deve stare in una stanza buia. Ogni rumore diventa decine di pugnalate intorno all’occhio. Questa componente emicranica, febbrile, sotto anfetamine era fondamentale per raccontare quel mondo di paranoia, angoscia, psicosi. Un mondo complesso, come lo era nel 1940. La vita dei singoli individui viveva di una complessità: pensa al comunista italiano, impegnato in battaglie giuste, che si trova il patto Molotov-Ribbentrop, si ritrova ad essere alleato dei nazisti, scopre delle purghe staliniane. Ed ecco quindi l’emicrania.
Si percepisce l’intenzione di far sentire lo spettatore in una condizione di malessere che diventa esplicito nella scena madre sul finale, con un personaggio che soffre e vomita mentre gli altri dialogano. Come ha lavorato per restituire questa visceralità e questa sensazione quasi di sporcizia?
Questo senso di sporcizia esiste anche perché questo film parla di dinamiche di potere, tra uomo e donna, tra microcosmo e macrocosmo. E il potere ha a che fare con la merda, con l’evacuare, con l’escrementizio. Si esprime in sudore, vomito, in comportamenti disgustosi, anche a un maschilismo tossico che era tipico di allora, letteralmente nella merda. Come anche nella chiusura di queste carrozze in cui abbiamo girato in Ungheria, che erano così strette che non ci passava neanche un dolly.
Quindi erano carrozze vere?
È stata una mia scelta voluta. Siamo andati nel museo dei treni di Budapest per rivivere e stare dentro questa bolla. Ovviamente le limitazioni erano tantissime, perché i guardiani erano lì a controllare che nulla accadesse a questi treni, che sono dei gioielli.
Non deve essere stato facile gestire la troupe.
Si può solo immaginare. Però paradossalmente eravamo tutti vicini, accalcati, sudavamo davvero. Questo creava non solo una connessione mentale, ma un immaginario. Se io sto chiuso in una stanzetta due metri per due, mi immagino di stare altrove. L’immaginazione attoriale e registica è stata alimentata da questa clausura.
A proposito del contributo degli attori. Ho notato un misto tra recitazione teatrale e cinema puro. Che tipo di recitazione ha chiesto loro?
Intanto viva il teatro, ce ne fosse di più di teatro al cinema. Ricordo di aver detto loro: divertiamoci attraverso il suono delle parole. Non tanto quello che raccontiamo, ma come lo raccontiamo. Ed ecco Pierobon che nella scena finale dice “subito” sottolineando quella sibilante. In quel suono c’è già chi è Umberto Cassola, il suo personaggio. L’approccio è stato quello di trovare dei legami musicali tra le parole. Pensare la sceneggiatura come una partitura musicale.
Ricordo questa scena lunghissima, con un’inquadratura strettissima sugli occhi di Ragno. Che non li batte per minuti interi.
Quella è la goduria di avere Ragno e Pierobon. Lì Tommaso Ragno può stare minuti intere senza battere le ciglia. A un certo punto mi fa una domanda che mi ha anche spiazzato: che nervo e muscolo del viso vuoi che io muova? Se guardi quei due minuti di occhi che non sbattono – che poi sono gli occhi di Dio, gli occhi di un grande inquisitore Dostoevskiano – lui muove solo un nervetto sotto l’occhio. E non è casuale, perché la precisione tecnica di questi attori è assoluta. La stessa cosa Tommaso la fa con la voce, così come Pierobon. È stata una fortuna, un vantaggio, una benedizione per me avere loro così come il resto del cast. Anche un attore completamente diverso come Levente Molnar, che fa tutto in sottrazione, soltanto piccoli gesti.
I personaggi del film mettono in scena una fede e un’abnegazione totale per le rispettive ideologie. È qualcosa che abbiamo perso?
L’abbiamo persa per alcune cose, per altre vive ancora tra di noi. E dico anche purtroppo. Parliamo di fedi politiche che tornano a parlare di Lebensraum, lo spazio vitale. Quando si torna a sentire, come accade ormai tutti i giorni, della Grande Russia, c’è da preoccuparsi. Magari ci fosse una fede umanista, ce ne sono tante altre, irrazionaliste, che non credono nell’uomo, ma credono nell’idea.
Mi hanno colpito due scelte narrative: l’inizio in medias res e il finale tragico.
Il finale è stato ispirato dalla tragedia greca, Orazi e Curiazi, con quest’idea dell’apocalisse, un richiamo ai milioni di vittime della Seconda Guerra Mondiale. L’inizio in media res è fondamentale per i drammi da camera. Basti a pensare a Le iene di Tarantino. C’era bisogno di avere un inizio che ti immergesse immediatamente in un mondo paranoico e paranoide.
Molto all’avanguardia anche la colonna sonora, con le musiche originali del compositore polacco Zbigniew Preisner.
Parlando con Zbigniew Preisner, l’idea era di fare un’impostazione coreutica, un coro da tragedia greca. Abbiamo usato un coro abbastanza grande e un quintetto d’archi. Il coro non doveva sottolineare i momenti più intensi, ma dare delle pennellate. Infilarsi negli interstizi, nei silenzi. Come se fosse sia dialogante con gli attori, sia voce di dentro. Come in un’opera che, si sa, ha la sua overture, ha il momento del balletto, le sue arie. Mescolare questo con musiche di Stravinsky e Puccini ci faceva tornare a un’idea primordiale di Russia atavica, a cui Stalin si ispirò non poco. Il famoso proclama che fece quando Hitler invase la Russia non fu ‘compagni e compagne’, ma ‘fratelli e sorelle’.
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