Bello, bravo, affascinante, ha abituato i giornalisti alle sue risposte brillanti e autoironiche, che rendono le conferenze stampa più piacevoli di quanto non siano di solito. Ma oggi George Clooney, al Lido per presentare Michael Clayton di Tony Gilroy, non è stato all’altezza della sua fama ed è inciampato in una domanda spinosa posta dalla collega di Cinecittà News Valentina Neri sulla contraddizione tra il suo impegno civile, al cinema e nella vita, e il suo ruolo di testimonial della Nespresso (Nestlé). Visibilmente imbarazzato, non è riuscito a rispondere altro che “Devo guadagnarmi da vivere”.
Nel film in concorso a Venezia – in uscita con Medusa il 5 ottobre – il cinico avvocato a cui Clooney presta il volto è un uomo con diversi scheletri nell’armadio: un giocatore d’azzardo divorziato e inseguito dai debiti, noto per essere un “risolutore”, un abile “spazzino” che nasconde le verità scomode. Ma che poi risulta contemporaneamente un eroe e un antieroe; un essere umano con tutte le sue debolezze, ma anche un professionista deciso a ristabilire la verità che era sempre stato abituato ad “aggiustare”. Come nel caso della multinazionale “U-North”, vittima di una class-action (le cause di gruppo tipiche del sistema americano) perché accusata di aver avvelenato e ucciso decine di persone con un diserbante cancerogeno. E’ l’improvvisa crisi di coscienza del suo potente collega Arthur Edens (un egregio Tom Wilkinson), incaricato del caso, a risvegliarlo e ad aprirgli gli occhi. Proprio l’effetto che Clooney vorrebbe ottenere con i suoi film presso il pubblico, salvo affogare in una tazzina di caffè…
Clooney, i film possono cambiare la coscienza politica di un paese?
Credo di sì. I film possono fare molto. In passato sono stati usati efficacemente per molti scopi diversi: per istigare guerre, per sostenere la politica estera americana, per sradicare il razzismo o emancipare le donne. Quindi senz’altro hanno il potere di cambiare le cose, e li faccio proprio per risvegliare la gente.
Nonostante i numerosi primi piani su di lei, sembra che si sia fatto di tutto per togliere il velo di glamour legato alla sua fama.
E’ vero, era una nostra precisa intenzione eliminare ogni aspetto glamour dalla storia per dare più rilievo alla realtà dei protagonisti, intrappolati nel meccanismo perverso delle multinazionali. E’ un’impresa difficile perché sono molto conosciuto, ma sempre più facile nella misura in cui sto invecchiando…
Quanto coraggio ci vuole oggi per fare un film di denuncia come questo?
Meno di qualche anno fa. Quando ho girato Syriana e Good Night and Good Luck, ci voleva più coraggio. All’epoca sono addirittura apparso sulla copertina di una rivista in cui mi hanno definito ‘traditore del paese’. Oggi che il 70% degli statunitensi è contrario alla guerra, ci vuole più talento che coraggio per affrontare certe questioni. Con certi film abbiamo iniziato a fare qualcosa in cui noi americani siamo bravissimi: mettere una pezza ai problemi che creiamo noi stessi.
Avrà saputo della polemica scatenata da Quentin Tarantino sul cinema italiano…
Non ne ero al corrente, ma credo che nemmeno i film americani di oggi siano all’altezza di quelli del passato. Anzi, questo vale per tutto il cinema mondiale, forse anche perché tendiamo a rendere il passato più romantico.
Visto che vive in Italia, ha avuto modo di vedere qualche film italiano?
Ultimamente sono stato impegnatissimo a realizzare il mio film da regista Leatherheads, una commedia romantica che ho scritto, diretto e interpretato, e ho visto pochissimi film. Posso dire che conosco Raoul Bova, che è bravo e fin troppo bello, e che mi piace molto Roberto Benigni, che è un amico.
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