Gavino Ledda nel dramma identitario di Mereu

Torna in scena il poeta e scrittore di Padre padrone, protagonista del​ quinto lungometraggio di Salvatore Mereu, Assandira, Fuori concorso alla Mostra e nelle sale dal 9 settembre con Lucky Red


VENEZIA – È liberamente tratto da un romanzo dell’antropologo Giulio Angioni, allievo di Ernesto De Martino, Assandira, quinto lungometraggio di Salvatore MereuFuori concorso alla Mostra e nelle sale dal 9 settembre con Lucky Red, prodotto da Viacolvento con Rai Cinema. Un film che racconta il dramma di una Sardegna in conflitto tra tradizione e modernità, mondo arcaico e immaginario contemporaneo fatto di villaggi vacanze e luoghi di villeggiatura: “Ho scelto il libro perché è il racconto del difficile approdo verso la modernità per una terra che viene venduta in maniera consapevole come arcaica”, racconta il regista rispetto alla genesi del film. “Mi sembrava all’apparenza un racconto paradigmatico di quello che è avvenuto in Sardegna negli ultimi vent’anni con lo sviluppo dell’industria del turismo. Ma mentirei dicendo che era il dato sociologico ad interessarmi, vi intravedevo sin da subito la possibilità di un racconto familiare che si sviluppa poi con le modalità della tragedia”.

Nel film il ritorno in scena di Gavino Ledda, analfabeta fino a vent’anni diventato glottologo, autore del romanzo autobiografico Padre padrone, le cui dinamiche vengono in questa pellicola ribaltate. Qui è nei panni di Costantino, un vero pastore che si fa convincere, per amore del figlio Mario, emigrante tornato in Sardegna insieme alla moglie tedesca, a fingere, in un meccanismo da reality, di essere un pastore sardo nell’agriturismo che ha messo in piedi insieme a figlio e nuora. Gli si chiede di interpretare, a consumo di turisti che cercano solo un’impudica messa in scena teatrale, ciò che per lui era fino a quel momento sacro; giocare a quello che in Sardegna non è mai stato un gioco per nessuno (“neanche i bambini ci giocano a fare il pastore”, si dice nel film con un riferimento al lavoro di Ledda); fingere piuttosto che essere.

Accetta per amore, fa senza aver capito, ma quando arriva ad avere la consapevolezza della degenerazione che ha creato, torna indietro e con un gesto catartico forte, l’appicco del fuoco, tenta di ristabilire l’ordine naturale delle cose. Ma la finzione suprema è causa della tragedia, e il figlio nell’incendio perde la vita. Da questo gesto estremo, oltre al dramma, nasce il sentimento della vergogna, qualcosa che non si può spegnere con l’acqua che pure, insieme al fuoco, può spegnere molte altre cose. “Perché di fronte alla morte di un figlio la vita diventa inutile e anche una vergogna, perché non ci hai saputo badare”. Una vergogna di stare al mondo e sopravvivere al proprio figlio che è, insieme, vergogna di avere finto e di non averlo guidato al momento giusto, quando doveva essere guidato. “La vergogna dà la misura delle cose, andare oltre può darci vergogna”, commenta Mereu, a cui fa eco Ledda: “La vergogna esiste da molto tempo, anche Omero la usa. Ha una latitudine semantica molto vasta. Di fronte a una tragedia ecologica come questa non si può non avere”.

Assandira – che vuol dire ‘saluto al sole’ ed è il ritornello di alcuni canti antichi di pastori per ringraziare il giorno che nasce – non è, però, una storia locale. “Non è solo la Sardegna, è tutto il mondo, l’umanità stessa che deve pendere atto che la terra non è nostra”, rimarca Ledda che rivela di aver accettato il ruolo, dopo l’iniziale titubanza, perché il suo è un personaggio che vuole soprattutto il rispetto della natura. “Questo film non è solo per la Sardegna, è per la terra. Noi ci siamo perché la terra ha voluto che si fossimo, ma dobbiamo rispettarla. La salvezza verrà dal buon uso della scienza e dell’arte”. Un’universalità che viene sottolineata anche dal regista: “Non è un film sardo, parla di cose che riguardano tutti. Si parte sempre dal luogo in cui si nasce e cresce perché lo si sa raccontarlo meglio e, diceva il grande Tolstoj, ‘racconta bene il tuo villaggio e arriverai al mondo’. Chiaramente in una dimensione d’isolamento come quella sarda, l’arrivo di un agente esterno destabilizza un equilibrio, ma è qualcosa avviene in tutte le comunità che sono chiamate al confronto. Io, in questo, racconto il difficile rapporto col mondo in cui viviamo, senza voler dare giudizio morale alcuno. Perché bisogna sapere accogliere tutte le coloriture del mondo senza giudicare”.

Tra i temi del film il rapporto tra le generazioni: “C’è una generazione, che è quella di Mario, che è in bilico, che non ha fatto sedimentare i valori della tradizione, che è andata fuori ed è tornata confusa perché ha perso i riferimenti. Ma è una generazione ricca che va rispettata, che non va condannata o biasimata perché non è stata al passaggio di testimone con la generazione passata. Oggi la vera difficoltà è trovare il proprio posto al mondo”.

06 Settembre 2020

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