CANNES – Nasceva nell’inverno del 2020 Futura, opera collettiva di tre autori del nostro cinema, Pietro Marcello, Francesco Munzi, Alice Rohrwacher: un film-inchiesta, che, se per gioco s’immaginasse in bianco&nero, potrebbe essere nato dalle menti e dalle mani di maestri del “genere”, come lo sono stati Luigi Comencini o Mario Soldati, di cui questo film è degnamente “figlio”. “Non siamo partiti da Comizi d’amore di Pasolini, ma avevamo ben in mente il lavoro, così come la consapevolezza dell’archivio: volevamo lavorare su un immaginario collettivo e raccoglierlo. Il metodo del film è stato creare un archivio di questa epoca; e poi fare un film d’archivio che possa essere visto anche in futuro, per raccogliere lo spirito di questo tempo”, spiega Rohrwacher.
L’indagine si costruisce sul “futuro”, su cosa significhi questa parola, su quali aspettative, paure, riflessioni, scateni nella generazione presente tra i 15 e i 25 anni, che i tre autori hanno intervistato andando ad incontrare addentro i propri specifici spazi geografici, sociali, riflessi degli spazi dell’anima. Una quarantina di località e contesti, da Nord a Sud del Bel Paese, “se ancora così si può dire”, recita un passaggio del film, dalla scuola professionale di Cornaredo (Milano) alla periferia di Palermo, dal centro minori di Varazze (Savona) alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
“Il titolo, Futura, è nato insieme: raccontiamo un tempo dell’immaginario, che s’interroga sullo stato di un Paese. Ci piaceva coniugarlo al femminile e contemporaneamente Pietro stava lavorando al film su Dalla, spesso risuonava il brano omonimo, che un pò ha influenzato. Non dovevano coprire l’interezza: abbiamo cercato coloro che sono arrivati fino a noi, senza i casi estremi, restando nell’area dell’epoca attraverso esperienze che non fossero singole, infatti abbiamo scelto gruppi, con un proprio nucleo, anche più facili da incontrare. Andare in profondità non lo volevamo fare, ma nemmeno la cronaca: la nostra guida è stata l’archivio, intervenendo sul materiale come una pasta che non fosse di uno solo di noi tre. Volevamo trattenere quest’epoca nel suo divenire, che fosse un affresco”, per Rohrwacher.
Un affresco girato in pellicola che: “ha creato anche una distanza tecnologica da cui sono abituati, mentre avere un ciak, un tempo, ha posto anche noi sul piano di un’altra epoca dalla loro. La cinepresa è molto nota a questi ragazzi, sanno raccontare le proprie storie, cosa che infatti noi abbiamo evitato: cercavamo le loro opinioni, il pensiero su cui forse sono meno abituati ad interrogarsi”, riflette ancora Rohrwacher.
“I divenenti” – così definiscono gli stessi autori i giovani non più bambini ma impegnati a diventare adulti – li ascoltiamo, e li guardiamo, nelle loro espressioni oculari e mimiche talvolta più espressive delle parole stesse, mentre ci restituiscono il loro “futuro”, nelle loro stesse parole: “Quando ti abitui all’ignoranza, diventi ignorante anche tu”. “Mi sento di voler lasciare un segno, con lo studio”. “Voglio andare via da questo postaccio (l’Italia)”. “Desidero la ribellione ma ho paura del fallimento”. “C’è precarietà di lavoro, come di esistenza: si parla di scelta libera ma se non ho un lavoro non sono libero”. “La paura è di perdere gli amici del presente” e “Andare all’estero non è per forza da privilegiati, comporta il mettersi in gioco, non è elitario ma soggettivo per definire il proprio percorso di vita”. “Il cibo è vita, l’ho imparato dalle nonne” ma “C’è gente che pensa che il proprio obiettivo sia solo portare una pagnotta a casa”. “Il futuro non credo si possa afferrare” e “credere in se stessi è l’unica religione possibile”.
“Io mi sono approcciato al lavoro come uno che doveva scoprire, nonostante io abbia un adolescente in casa: alcuni contenuti non ci sono deliberatamente perché sentivamo talvolta una loro eccessiva generosità che andava anche fuori tema, abbiamo lavorato sempre ponendoci con equilibrio e distanza; poi nel montaggio c’è stato un secondo passo in tale senso”, dice Munzi.
“Per noi è stato il sorvolare una giovane umanità. Sono tematiche molto delicate, è come fare un film in prigione: loro si facevano forza a raccontarsi e noi ad ascoltarli. Anzitutto, era un film sull’ideologia del cinema”, secondo Marcello.
Con Futura, il trio di registi offrono un’opera che fa già parte della Storia dell’Archivio dal suo sbocciare: loro stessi, verso il finire del film, si domandano – in voce fuori campo – che effetto sortirà in questi giovani il riascoltarsi tra vent’anni, nel tempo che sarà quel “futuro” su cui adesso sono chiamati a rispondere, e che i loro pensieri, le loro voci, le loro emozioni adesso provano a disegnare, restituendo pennellate di malinconia, di disincanto, di spavalda speranza, di lucido ottimismo, in cui tutti – e nessuno – rispondono “correttamente”, perché in fondo – giovani e non – siamo figli di un destino, che però in parte siamo anche noi, esseri umani, a scrivere. “Questo film tra 20 anni sarà un archivio di futuro”, commenta il fuori campo.
“Il film va un po’ a campione, l’approccio non era scientifico: abbiamo cercato delle varietà, con un disordine emotivo umano, non c’è stata esclusione di niente (di sociale)”, precisa Munzi, cui segue Marcello: “Siamo stati esecutori al servizio del film, l’un l’altro ci si preoccupava reciprocamente. Per me, da documentarista, era importante essere esecutore a loro servizio”.
E nell’appassionante e detonante susseguirsi del flusso di coscienza della generazione chiamata in causa, anche il tema delle nuove tecnologie, su cui salgono a galla voci decise e “controtendenza”, perché se “Il web è fondamentale per raggiungere parenti e amici”, “la tecnologia sarà sempre più avanzata, fino a far perdere i rapporti tra persone” e “Tutta ‘sta connessione non ci fa bene, è uno scambiarsi informazioni di cui a nessuno importa: è una grande piaga, un’apparente libertà”, gridano con fermezza gli intervistati. Infatti: “è difficile dire cosa ne venga fuori da questo affresco, continuiamo ancora a interrogarci: ai tempi dei social è un mondo disastrato, ma raccontiamo anche ragazzi che si sono trovati nelle solitudine di una pandemia”, commenta Marcello.
Futura chiude citando un passo del Noi che desideriamo senza fine di Raoul Vaneigem, che campeggia scritto di bianco su un cartello nero, come a “scolpire” la riflessione tutta dell’opera filmica. “Chiudiamo con Vaneigem perché è qualcuno che ha studiato i giovani in maniera differente dagli altri”, chiosa Marcello.
Futura, in prima mondiale nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, è distribuito da Luce Cinecittà.
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