ROMA – “A Kabul le stelle non cambiavano mai posto, le trovavo sempre lì dov’erano la sera prima” – dice a Donya il suo vicino di casa, mentre entrambi insonni guardano il cielo fuori la porta. “Non so come faccia la gente a sentirsi al sicuro in un posto dove le stelle cambiano tanto”.
È il dialogo di una delle primissime scene di Fremont, il nuovo film di Babak Jalali in concorso alla Festa del Cinema di Roma 2023 nella sezione Progressive. Tra primi piani mozzafiato e la magnifica colonna sonora di Mahmoud Schricker, il ritmo del racconto ha da subito un respiro lento e profondo.
La scelta di un essenziale ed elegantissimo bianco e nero (direttrice della Fotografia è Laura Valladao) riesce a catturare ancor di più l’attenzione sullo stato d’animo dei protagonisti, a partire da Donya, interpretata stupendamente da Anaita Wali Zada: una ragazza afgana ventenne, ex traduttrice per l’esercito americano nel suo Paese, dal quale è fuggita dopo il ritorno dei talebani. Vive da sola a Fremont, la città della Bay Area anche detta ‘Little Kabul’ perché ospita una delle più grandi comunità di afgani negli Stati Uniti. Spesso cena da sola in una locanda del posto, guardando distrattamente una soap opera in compagnia del vecchio ristoratore – pure afgano – che la invita a non pensare e a seguirne davvero la trama, tanto “tutti arrivano nel nostro Paese, lo devastano e poi se ne vanno, e questa (la tv) è la distrazione migliore”.
Donya invece pensa sempre, fatica a dormire e anche a rimettere in ordine la sua vita, che passa ogni giorno a lavorare in una fabbrica cinese di San Francisco, impacchettando biscotti della fortuna destinati ai ristoranti cinesi. Una mattina approfitta di un appuntamento dallo psicologo (un formidabile Gregg Turkington) disertato dal suo vicino, e inizia così una serie di incontri pieni zeppi di geniale ironia. Il Dr. Anthony le racconta la storia di Zanna Bianca, “il suo migrante preferito”, unico superstite di una famiglia decimata dalla carestia, con il quale, piano piano, Donya inizia a trovare dei punti di ‘incontro’. E un bel giorno, quando da impacchettatrice viene promossa a ‘scrittrice’ dei bigliettini da inserire nei biscotti, qualcosa cambia: anche lo psicologo ne è felice, e si esercita a scriverne qualcuno: “una nave in porto è al sicuro, ma non è per questo che si costruiscono le navi”, è il primo che legge a Donya. E il giorno dopo, in un momento di coraggiosa illuminazione, la ragazza scrive un messaggio della fortuna ‘speciale’, da inviare al mondo intero, ignara di dove ciò potrà portarla.
“Chi piange ha un solo dolore”. Ma chi ride ha mille e un dolore”.
Baback Jalali trova un proverbio perfetto per parlare del suo film, perché – spiega il regista iraniano-britannico – “anche se gli argomenti trattati a volte possono essere oscuri, c’è anche dell’umorismo nell’oscurità e l’elemento della leggerezza è stato sempre importante per me. Mostrare umorismo in situazioni cupe non sminuisce affatto la serietà o la profondità di una storia. Può renderlo ancora più reale e aggiungere sfumature”.
“Questo film parla di un’immigrata in un nuovo paese – continua Jalali – ma ovviamente tutte le esperienze di immigrazione sono differenti. Ogni individuo ha ragioni diverse per andarsene, e ogni individuo ha i propri sogni e desideri di ciò che il futuro potrà riservargli nella sua nuova ‘casa’. Spesso è il proprio passato a dettare il presente, e per chi inizia da zero in un posto molto lontano da casa, il passato non è mai veramente alle spalle.
Con Fremont voglio guardare oltre la narrazione delle enormi differenze che esistono tra gli esseri umani. In un mondo in cui si fa tanto per inventare le differenze ed esagerare l’alterità, è importante guardare alle somiglianze universali. Un immigrato e un non immigrato condividono molte delle stesse speranze, degli stessi sogni e delle stesse ambizioni. La protagonista, Donya, è una giovane donna esuberante, era una traduttrice per l’esercito americano nel suo Paese e sa di essere dove si trova a causa delle sue scelte di vita: ma ciò non significa che non soffra o non si senta spiazzata. È determinata a cambiare le cose. Vuole essere occupata e sentirsi a suo agio. Vuole innamorarsi. E vuole essere accettata. Proprio come la maggior parte delle altre persone. Anche se al centro di questo film c’è la difficile situazione di una traduttrice afghana e la sua nuova vita negli Stati Uniti, lo stile del film non è esattamente quello del realismo sociale. La riflessione sulle assurdità dell’adattamento culturale e sul sentimento di ‘spiazzamento’ lontano da casa può avvenire anche attraverso l’umorismo”.
Babak Jalali e Carolina Cavalli, che con lui ha scritto il film, ci parlano di Donya e degli altri rifugiati come lei con uno sguardo leggero, poetico e contemplativo, che oltre a far godere gli occhi dello spettatore, lascia anche a lui il tempo di respirare e pensare. Uno sguardo in ascolto di persone che, come tutti, cercano semplicemente un futuro, in un contesto tipicamente diffidente che ne aggrava la solitudine esistenziale, ma senza riuscire a spegnere il loro desiderio di cambiamento, di amore, di comunità, di vita. In una parola, senza riuscire a spegnere la speranza. Esattamente quello di cui il cinema e il mondo cinico e spietato lì fuori hanno bisogno: anche il pubblico della Festa sembra dimostrarlo, tributando un lunghissimo applauso agli autori in sala.
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