Fotinì Peluso, 25 anni compiuti all’inizio dell’anno, è dal 2016, dal Romanzo Famigliare di Francesca Archibugi, che radica sempre di più il suo talento tra grande e piccolo schermo, ma anche tra Italia e altri Paesi, è infatti un enfant prodige delle co-produzioni internazionali, vanto di pochissimi suoi coetanei italiani e, a conferma di questa considerazione cinematografica che supera i confini nazionali, è nelle sale (dal 20 giugno) protagonista de La treccia, dal romanzo bestseller omonimo di Laetitia Colombani, anche regista.
Lei – ospite del Bardolino Film Festival 2024 – è stata insignita del Premio BFF Scintilla, dedicato a giovani interpreti, che si stiano distinguendo nel panorama cinematografico.
Fotinì, un tema de La treccia è il destino: come ti sei posta rispetto al doverne interpretare uno spaccato, nel ruolo di Giulia, e che valore gli attribuisci personalmente?
Per me è una cosa molto concreta il fatto che ci siano energie tra le persone, quindi un contatto, e non perché si sia distanti Paesi, o migliaia di chilometri, non sussiste. Credo molto nell’aurea delle persone e non intesa come qualcosa di surreale: per me è molto pragmatica, e ‘il caso’ in alcuni termini non esiste, nel senso che noi attiriamo anche ciò che ci attira; credo molti rapporti si sviluppino così e anche nella mia vita quotidiana lo riconosco.
Nel film non c’è mai un contatto effettivo tra le tre storie, è stato così anche nella realtà produttiva? C’era uno specifico volere di Colombani?
È una cosa che ho trovato molto commovente, rifacendomi alla risposta precedente, perché durante il film, girando in tre Paesi diversi, non c’eravamo incontrate prima con le altre attrici – Kim Raver, Mia Maelzer, e quando ci siamo viste io ho percepito questa energia, così come ho percepito che durante la lavorazione, ognuna facendo il proprio pezzetto, nessuna non abbia mai pensato di fare un film da sola, da protagonista. Non ci siamo incontrate durante la produzione per questioni banalmente logistiche: Kim abita a Los Angeles e girava in Canada, Mia abita in India, oltre al fatto che girassimo in momenti proprio differenti, i mesi di riprese sono stati tanti. Io sono stata l’ultima a girare, ma anche la prima a incontrarle tutte, perché ho fatto da sola un viaggio personale proprio in India e, completamente per caso, in quel momento, mentre stavo a Bombai, facevano una proiezione per l’equipe del film: il caso non esiste, evidentemente. Mia, quindi, l’ho incontrata lì; mentre Kim l’ho incontrata perché era venuta a fare le vacanze in Italia, durante l’estate in cui stavamo girando in Puglia, ed è passata a trovarmi sul set.
Altre due tematiche del film, correlate, sono la famiglia e l’affermazione della propria individualità: pensi nella vita sia sempre giusto cercare un equilibrio, oppure sia necessario talvolta immolarsi nel nome dell’appartenenza, o della tradizione come in questo caso, o – ancora – è utile e sano un po’ di egoismo allo scopo di non annullarsi?
Nella pratica credo sia sempre più complesso che a parole, ma penso sia importantissimo avere una propria individualità e emanciparsi dalla famiglia: io ho avuto un’infanzia meravigliosa, una famiglia meravigliosa, però mi rendo conto arrivi un momento in cui bisogna un po’ tagliare un legame, a livello di scelte intendo, senza sentire la pressione famigliare: le scelte che farebbero i miei genitori non sarebbero necessariamente le mie, insomma. Quello che mi piace di Giulia è il suo saper creare un connubio tra passato e presente: non rigetta le sue origini, non annulla quello che era prima, cerca piuttosto di fare una metamorfosi.
Giulia è una divoratrice di libri, nel film espressamente legge Pavese e usa la letteratura come metafora, ispirazione, guida della vita reale: tu, nella quotidianità e nella professione, hai un rapporto simile con la letteratura o con qualcos’altro che usi come costante binario?
Mi piace tantissimo leggere e non riesco a leggere quanto vorrei, siamo anni luce dalla quantità di libri che dovrei e vorrei leggere, un po’ per lassismo, un po’ per stanchezza dopo il set, un po’ perché leggo molto le sceneggiature, per cui poi – nel tempo libero – preferisco poi abbandonare il cervello di fronte a qualcosa di più passivo; però, di questo aspetto di Giulia, sono rimasta molto affascinata, anche perché a me piace moltissimo Pavese, e capitava sul set mi mettessi a leggere delle pagine tra una scena e l’altra, ritrovandomi spesso in borsa libri suoi, come di Moravia: mi piace la letteratura, tantissimo quella italiana, così come mi piace la poesia; adesso mi sto avvicinando alle pièce teatrali, perché sto cercando di farmi una cultura, anche non avendo fatto una scuola specifica di cinema o di teatro, mancandomi un po’ una formazione accademica insomma, così ho scoperto il mondo delle pièce.
Ti piacerebbe misurarti col teatro, quindi?
Tantissimo, tantissimo. Se ne avessi l’occasione sì, certamente. Naturalmente è un impegno differente dal cinema.
Il film ha la premessa del libro, un best seller internazionale: come ti sei approcciata, prima all’originale e poi alla sceneggiatura? E Colombani, in quanto autrice del romanzo, come ha gestito questo aspetto?
Non ho letto il libro prima del film, una cosa tipica mia: mi capita di partecipare ad adattamenti e ho un po’ questo ‘morbo’ di non leggerli prima, non lo faccio apposta, è qualcosa di spontaneo; ho l’intenzione di leggere ma poi procrastino così tanto che penso debba andare così. Il libro, comunque, poi l’ho letto ed è estremamente fedele al film: si sente sia proprio il bambino di Laetitia. La mia storia, delle tre, è quella che cambia di più, anche perché nel libro è ambientata in Sicilia, mentre nel film in Puglia, e ci sono parti differenti, per esempio ha amplificato il rapporto tra Giulia e la madre, per me meraviglioso. Certamente, avere una scrittrice che adatta e poi dirige il proprio libro è magico perché lo conosce in maniera viscerale. Quando sono così personali i progetti hai paura di esprimere un’opinione che possa disturbare e invece Laetitia s’è dimostrata avere malleabilità, creatività in corso d’opera, un’apertura alle opinioni altrui, che hanno permesso di arricchire tantissimo: nella settimana di prove, con lei e Avi Nash, mio partner nel film, abbiamo adattato moltissimo a noi i ruoli, è stato davvero magico.
La treccia è un simbolo, qui è un concetto applicato alla drammaturgia: come ti ci sei confrontata tu, per la recitazione, per la metabolizzazione del personaggio?
È un simbolo che mi piace tantissimo e, più in generale, i capelli hanno un valore da sempre, nelle varie culture, un significato potentissimo, e io sono molto affezionata ai miei capelli! La treccia mi dà un senso di forza, l’ho sempre visto come un simbolo capace di indicare un legame quasi indissolubile, rappresentato da tre ceppi con una stessa radice: inoltre, rappresenta anche la forza della rinascita, con la ricrescita e, con Giulia, io avevo anche la parte più vicina alla manodopera dei capelli, per cui abbiamo fatto anche training con dei laboratori, un’esperienza bellissima di cui ero all’oscuro, un mondo che è andato perdendosi, ma invece di grande cultura.
La treccia è una co-produzione italo-francese, poi a breve sarà distribuita la seconda stagione di Tutto chiede salvezza di cui sei protagonista, ma per te ricorre l’eccezione – tra gli interpreti della tua generazione – che tu sia spesso protagonista di progetti che vanno oltre il confine del cinema italiano.
Il cinema, forse anche grazie alle piattaforme, mi sembra si stia sempre un po’ ampliando alle co-produzioni, e questo mi fa molto piacere, perché concorre alla bellezza del nostro mestiere: personalmente mi piacciono le lingue, le altre culture, quindi ne sono affascinata. Credo ci siano sempre più persone che stiano provando a espandere gli orizzonti, e questo vuol dire più creatività: io sono nata con il bilinguismo (italiano e greco), cosa che mi ha portata a farmi piacere le lingue, poi è arrivata la Francia nella mia vita (dove attualmente Fotinì Peluso vive, ndr), e per me è stata una fortuna pazzesca; le co-produzioni internazionali sono quelle che mi piacciono di più, anche perché c’è anche un inceppo della lingua, come succede sul set e può essere divertentissimo, e poi, come tutti gli ostacoli, avvicina le persone. In questo momento sto aspettando… cose in corso, ma intanto ho girato Mani nude di Mauro Mancini, poi Tutto chiede salvezza 2 sarà presentato al Giffoni, e L’enfant qui mesurait le monde di Takis Candilis, una co-produzione franco-greca, esce dal 26 giugno nei cinema francesi; qui ho un piccolo ruolo che mi piace tantissimo, sono una giornalista, finalmente, non vedevo l’ora: è ambientato su una piccola isola greca, di fronte ad Atene, e io sono una greca che ha studiato in Francia, e infatti è tutto girato in francese principalmente; racconta l’incontro tra un nonno iper assente che, a seguito della morte di sua figlia, deve andare sull’isola a gestire tutto, anche la logistica del decesso, trovandosi all’improvviso con un nipote che non sapeva di avere, affetto da Asperger.
Questa opportunità ti è arrivata dalla Francia, dove adesso stai vivendo, oppure dalla Grecia? E La treccia?
La treccia dall’Italia, non dalla Francia, da cui invece mi è arrivato il film di Candilis. In Europa è un periodo un po’ critico anche per il cinema e la risorsa che possiamo avere è quella di espandere un po’ gli orizzonti, cercando di scoprire nuove persone, altri mercati, per rilanciare anche l’industria.
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