Fotinì Peluso, premio Biraghi-Serie, presto al cinema per Laetitia Colombani e M.Sole Tognazzi

L’intervista all’attrice romana di origini greche, prestata a Parigi per lo studio della recitazione, che ai Nastri d’argento Grandi Serie ha ricevuto il premio per Tutto chiede salvezza


NAPOLI – Se le serie tv sono “un cinema che ha scelto un altro formato, cambiando la narrazione televisiva, e per questi Nastri di giovani ce ne sono tantissimi, e questo è un segno, è un rinnovamento” secondo Laura Delli Colli, presidente del SNGCI – Sindacato Nazionale Giornalistici Cinematografici Italiani, che ha speso queste parole presentando – ieri pomeriggio, 17 giugno – la terza edizione del Nastri d’argento Grandi Serie a Napoli: una conferma a questa doppia considerazione viene guardando al Premio Biraghi-Serie conferito a Fotinì Peluso – e Federico Cesari – rivelazione di Tutto chiede salvezza.

Per Fotinì – classe 1999 – anche il Premio per l’Immagine Wella Professionals, riconoscimento al successo di una giovane promessa.

Fotinì, il tuo debutto assoluto sullo schermo è stato con Francesca Archibugi: quando e come arriva l’arte della recitazione nella tua vita, e cosa dell’interpretazione cinematografica hai compreso appartenere alle tue corde?

 La recitazione arriva nella mia vita con un primo provino in un centro sociale, quello che allora era ancora il Cinema America di Roma: era per un film di Ivan Cotroneo, per cui non mi prese ma mi richiamò, incitandomi a continuare, però la prima esperienza importante è stata appunto con Francesca Archibugi, per la serie Romanzo famigliare. E da lì s’è aperto un mondo: ‘prima e dopo Cristo’, come dire. Ero certamente una bambina molto molto iperattiva, non si riusciva molto a contenermi: mi sono poi un po’ forzata per incanalarmi nei binari della scuola, a partire dalle medie ho iniziato un po’ a costringermi per rientrare in canoni sociali, per non essere troppo stravagante, troppo esagerata, troppo di qua e troppo di là, e al liceo – soprattutto – questo mi ha creato una grande pressione mentale, quindi penso che la recitazione sia stato quello che mi ha fatto evadere da questa prigione che si era creata intorno; è molto nella mie corde il viaggiare veloce della fantasia e quello della recitazione è l’unico ambiente in cui mi sento libera di lasciare la presa. 

Tutte le tue prime opportunità – da Romanzo famigliare a La compagnia del cigno a Cosa sarà a Il Colibrì – sono state opportunità popolari, nel senso nobile del termine: da interprete under 30 come stai lavorando per cercare di tenere alta l’asticella e non rischiare di essere ricordata solo per un progetto?

È vero, è un po’ faticoso ed è la paura che c’è sempre, ma alla fine mi dico che ci voglia molta fortuna, non va sottovalutata, anzi io ho sempre la sindrome dell’impostore, e a volte mi dico: ‘perché sono qui? Forse non ci hanno capito nulla, li ho infinocchiati’. Però c’è anche una sorta di istinto, sono sempre stata educata a fidarmi del mio istinto, di cosa senta e provi, e così se sento positivo per me un progetto mi chiedo se sarà meglio o peggio del precedente, se mi porterà qualcosa di positivo o meno, e questo non lo posso sapere, ma l’importante è che sia positivo per me, per come lo percepisco, è un istinto abbastanza infallibile per chiunque, non solo per me. 

Parliamo di talento: non tutte le persone che recitano lo possiedono, possono essere ben dirette e funzionare ma il talento è una virtù innata, da coltivare, ma che nessuno ti insegna. Tu hai compreso cosa significhi ‘avere la stoffa’, cosa sia ‘il talento’ appunto?

 Quello che non ho io (ride). Non è una cosa che riesco a definire rispetto a me stessa, quindi rispondo non riferendomi a me: quando vedo che una persona ha talento in questo mestiere, credo sempre non sia legato solo alla recitazione in sé ma anche a un carisma, a una presenza, a un’osservazione di quello che c’è intorno, degli altri, che comprende anche tutta la troupe. Il talento di un attore per me è anche la collaborazione a livello umano con le persone che ha intorno. 

Essere destinataria di un premio, sempre nell’ottica dell’essere ‘una debuttante’, che valore pensi possa avere per la carriera? Per te personalmente ma anche per chi ti osserva, chi ti dovrà scegliere per prossimi progetti. 

 Il Biraghi è il primo premio di peso che prendo, sono molto fiera. Non so che impatto possa avere ma sono certa partecipino a questi premi persone di spicco del mondo dello spettacolo e persone che stimo, ammiro, a cui ambisco, quindi sicuramente sono anche un’occasione che mi permette anche di entrare in contatto con loro. Rispetto al premio da ‘debuttante’ sono molto fiera di questo, nel senso che francamente spero tutti miei eventuali premi si possano considerare tali, perché il cinema è sempre una prima volta

Nel tuo mestiere applichi o studi un ‘metodo’ di recitazione? Hai una tecnica? Oppure sei un’attrice ‘di pancia’?

 Come dicevo prima, ho sempre un’enorme sindrome dell’impostore: non ho mai studiato recitazione, ho fatto per un periodo di quattro mesi un’accademia di teatro a Parigi, durante il mio Erasmus, ma mai un percorso dedicato. Si impara moltissimo anche sul campo, però cerco di fare degli stage intensivi, di arricchirmi sempre, di leggere tanto teatro, che nutre l’anima a livelli altissimi, quindi… credo di essere più ‘di pancia’ perché non ho mai seguito una vera tecnica, poi – altrettanto – ogni regista ti educa a suo modo, quindi se riesci a prendere il buono da ognuno si crea un metodo tuo

Il ‘genere’, che ha avuto grandi stagioni nel nostro cinema, sta riprendendo un po’ piede: cosa ne pensi dell’opportunità di potersi sperimentare in un film di genere e in quale ti piacerebbe misurati?

 Stupendo! Lo chiamavano Jeeg Robot per me, negli ultimi anni, rappresenta la rinascita del genere in Italia e inoltre è davvero un piccolo gioiello: i film di genere a volte li sentiamo come troppo distanti o differenti da noi, mentre questo è l’emblema della fusione tra quella che può essere finzione ma allo stesso tempo umanità. Un film del genere mi piacerebbe tanto interpretarlo, avere a che fare con il super potere lo trovo interessantissimo, soprattutto per le sfide che si presentano quando entrano in gioco elementi sovrannaturali, quindi magari anche l’esclusione, il fatto di sentirsi esterni, di dover trovare un’appartenenza, è qualcosa che mi attira molto.   

Il cinema italiano presente – guardato anche da te che da qualche tempo stai raffinando il tuo mestiere in Francia – che opportunità dà ad un giovane interprete, e quali difetti invece avverti, che potrebbero essere migliorati proprio per il futuro della tua generazione?

 Io amo moltissimo il cinema italiano, da sempre, questa è la mia patria, non potrei mai immaginare di non lavorare in questo Paese: forse, proprio perché lo amo tanto, credo bisognerebbe essere un po’ più intelligenti dal punto di vista statale, più che dell’industria in sé, stanziando più fondi, cercando di dar la possibilità ai giovani di rinnovarsi, questo secondo me manca tanto; trovo che a Parigi ci sia un ricambio maggiore, che i giovani abbiano più voce in capitolo, e a volte siano più accessibili dei finanziamenti per fare dei progetti. In Francia ho fatto una serie Amazon, Greek Salad, di Klapisch; ho appena finito di girare un film in Grecia di un regista di origini greche; ho partecipato a una mini serie in Svizzera

Progetti per il futuro. 

 Essere felice, senz’altro, questo sempre. Ho in uscita un film internazionale di Laetitia Colombani, La tresse, girato in India, Canada e Italia, di cui io sono la protagonista della parte italiana; il film di Maria Sole Tognazzi, Dieci Minuti, con Barbara Ronchi e Margherita Buy; e a breve iniziamo le riprese di Tutto chiede salvezza 2

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18 Giugno 2023

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