“Fermate il massacro di Ciudad Juárez”


BERLINO Juarez, Messico. Per molti, un nome come un altro. Invece il nome di questa città di confine tra Stati Uniti e Messico è funesto. E’ un nome che evoca orrore. Da più di quindici anni, accade a Juarez qualcosa di inaudito: 400 donne sono state rapite e assassinate. E gli assassini sono ancora impuniti. Una tragedia in gran parte dimenticata: perché queste donne non “valgono” quanto altre. Guadagnano cinque dollari al giorno. E le loro famiglie non hanno i soldi per pagare avvocati, o nessuno che possa indagare sulle loro morti. Probabilmente, queste ragazze vengono usate per traffico di organi, videotape estremi, giochi sessuali prima di essere uccise. Ma un film sulla loro storia non si sarebbe mai fatto. Se non fosse che Jennifer Lopez con la forza della sua immagine ha preso a cuore il progetto, e reso possibile il film, del quale è coproduttrice, oltre che protagonista insieme ad Antonio Banderas.

 

Bordertown è stato presentato oggi alla Berlinale in concorso. Uscirà in Italia il 23 marzo, distribuito da Medusa. Nel film, J-Lo è una giornalista, che indaga sui delitti senza potersi fidare di nessuno: non certo della polizia, corrotta e connivente. E neppure dello stesso giornale per il quale lavora: perché anche in redazione, a Chicago, si sentono fortissime le pressioni di chi non vuole che si sappia niente su questi delitti. La conferenza stampa che segue il film è una delle più toccanti della Berlinale di quest’anno. Immediatamente si alza una giornalista messicana. Ha quasi le lacrime agli occhi. “Io scrivo sull’unico giornale messicano che ha cercato di scoprire la verità sui rapimenti: vi prego, fate qualcosa con i soldi del film. Ditemi, farete qualcosa per aiutare le famiglie delle vittime?”. Il regista, Gregory Nava, risponde: “Siamo in collaborazione con Amnesty International, il sito web del nostro film accoglie donazioni per tutte le donne vittime di abusi. Ma soprattutto vogliamo che questa storia si sappia. Io vivo al confine tra Messico e Usa, in questi chilometri dove si passa dal primo al terzo mondo in un attimo. Sono dieci anni che voglio fare un film su questo argomento. Non per farci soldi, ma perché ho pensato che dovevo fare qualcosa. E quello che io so fare è raccontare storie, al cinema. Questo è il mio modo di prendere posizione, di impegnarmi. E so che se non ci fosse stata Jennifer Lopez, questo film non si sarebbe fatto. Anche così, abbiamo tutti ricevuto minacce di morte, e non ci siamo potuti avvicinare a Juarez per girare. Ci hanno rubato la cinepresa e tutto l’attrezzatura, siamo stati costretti a ingaggiare uomini armati per proteggerci”.

 

Ha cambiato qualcosa, questo film, nella vita di J-Lo? “Tutto”, dice lei. “Il mio modo di pensare, il mio modo di lavorare. Adesso non penso più ‘vediamo quale può essere la prossima commedia’. Adesso voglio film necessari”. In finale di conferenza, il momento più vero di tutto il festival. Norma Andrade, fondatrice del comitato “Riportate a casa le nostre figlie”, madre di una delle vittime, dice: “Tre corpi sono stati trovati in questi giorni, tre altre ragazze sono state uccise. In Messico queste donne non valgono un soldo, le famiglie non hanno i soldi per le indagini. Tutti, tutti dobbiamo fare qualcosa. Le persone che ci appoggiano nella lotta sono state accusate e arrestate, a me hanno devastato l’ufficio. Io ho solo speranza, adesso, nell’opinione pubblica internazionale. In Messico hanno protetto gli assassini. La pressione internazionale sul Messico è l’unica cosa che ci può aiutare. Non si tratta di una guerra: è solo un gruppo di pervertiti. Quanti omicidi ci devono ancora essere perché questa tragedia possa diventare un ‘caso’? Adesso, in Messico, quando una donna viene trovata morta a Juarez, passa al telegiornale, e il giorno dopo non se ne parla più. E’ ora di finirla con questo orrore”. L’applauso che segue è, probabilmente, uno dei momenti da ricordare di questo festival.

15 Febbraio 2007

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