Favino: “Il ‘Comandante’ disobbedisce e mette l’essere umano al primo posto”

Il film di Edoardo De Angelis apre Venezia80: la storia di Salvatore Todaro, del sommergibile Cappellini –ricostruito dal reparto costruzioni scenografiche di Cinecittà– e del salvataggio di 26 uomini


VENEZIA – Dentro la pancia di un pesce di ferro, i marinai “spariscono”: sotto il mare, spesso per sempre, e lo sanno, ogni volta che tornano, se tornano, e ogni volta che decidono di ripartire. “Qualche smidollato pensa che i sommergibilisti non combattano veramente … La nostra trincea non si vede e il nemico sta là… non fate finta di non aver paura … amatela (la paura)”: questa è una delle prime frasi che pronuncia il Salvatore Todaro interpretato da Pierfrancesco Favino, il Comandante del sommergibile atlantico Cappellini – ricostruito dal reparto costruzioni scenografiche di Cinecittà (leggi il nostro articolo) -, film di apertura dell’80° Mostra del Cinema di Venezia, diretto da Edoardo De Angelis.

“L’ispirazione nasce dalla folgorazione per la sua figura”, spiega il regista. “Poi, una lunga attività di ricerca: la Marina ci ha aperto le porte dell’Archivio e dell’entusiasmo, un supporto determinante. Era la storia di questo… uomo ad appassionarci: nei primi anni di guerra, c’erano film di De Robertis, di cui assistente era Roberto Rossellini, realizzati per propaganda, realizzati dal vero, con reali sommergibili e riprese di reali dinamiche di guerra: per noi sono state referenze precise per realizzare soprattutto gli interni, di cui c’erano solo fotografie in bianco&nero. Nei film di De Robertis c’era il funzionamento dei sommergibili del ‘40. C’è un’ispirazione di natura emotiva e tutto dipende da lì: Todaro ci ha insegnato cosa significhi essere forti e italiani. Portare 2000 anni di civiltà sulle spalle significa accogliere e non respingere, arricchirsi della diversità; quando ho sentito questa storia, ho pensato che se essere italiani significa questo, io sono italiano”.

Lui, Salvatore Todaro, comandante della Regia Marina durante la Seconda Guerra Mondiale, col Cappellini impegnato a bloccare le rotte marittime tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, nel film sulla rotta verso Gibilterra, prima che un uomo di guerra, prima che marito e padre – era sposato con Rina (Silvia D’Amico), e aveva due figli: Gian Luigi e Graziella Marina – è un’anima di mare: dentro la pancia del pesce di ferro non c’è “…il Duce a condurvi, ci sono io. E non c’è neanche la mammina…”, ricorda all’equipaggio, rispetto a cui si restituisce autorevole seppur altrettanto empatico, nella lucidissima consapevolezza della sua/loro missione sì – “la mia vittoria è la battaglia” – ma ribadendo come principio assoluto l’essere prima, anzitutto, sempre, un uomo di mare, laddove “uomo” è concetto pregno di una pietas pura e dove il “mare” è un universo con le sue regole, e la prima è l’essere umano.

De Angelis sceglie di mostrare un Favino costantemente intenso nei piani più ravvicinati, ricorrenti, e sempre solido – nonostante i lancinanti dolori alla schiena – nel fisico statuario, rassicurante: lo si ascolta spesso in voce fuori campo, mentre “si rivolge” alla moglie Rina, le racconta le giornate lì sotto negli abissi, gli antipodi culturali ed emotivi del suo equipaggio, laddove un verace livornese non c’entrava niente con un religiosissimo siciliano, eppure stesse anime di quel “…bordello meraviglioso e putrido: è l’Italia”, questo s’apprende dalle lettere che lui le scriveva.

Per Favino, “Todaro era una figura che non conoscevo, un magnifico esempio del fatto che un essere umano non è mai una cosa sola, un aggettivo; lui era un cattolico e uno spiritista. Un militare convinto, appassionato di arti orientali: da attore questo mi affascina, non mi piacciono i personaggi con un solo colore, e lui è esempio di quante gradazioni in evoluzione ci siano in un essere umano. L’esperienza del sommergibile è come lo spazio, se la fai non puoi più guardare il mondo allo stesso modo. È la storia di un’epifania: lui, sapendo che sta disobbedendo, obbedisce a una legge più alta e mette l’uomo al primo posto. È un bell’esempio di umanità. Mi piace che non parta con l’idea di salvare l’uomo ma scopra di poterlo fare, e poi torni a fare la guerra: decide di fare il gesto perché sente di appartenere a quella idea di umanità, che io ammiro”. Inoltre, aggiunge l’attore con emozione, “fatto salvo che fare un altro essere umano è di per sé un tradimento, e sono consapevole di questo, mi ha emozionato che la figlia di Todaro mi abbia detto di non aver mai sentito la voce del papà: adesso ce l’ha”.

E per Jasmine, la nipote del Comandante, “è stata emotivamente difficile la gestione, non pensavo. Con tutto l’entusiasmo, la certezza delle persone, come Sandro Veronesi – co-sceneggiatore con De Angelis – che già conoscevo, ci aveva tranquillizzato, ma la difficoltà emotiva non era attesa. Comunque, mia nonna Rina, poi si è sposata nuovamente, con un grandissimo uomo, il primo a rispettare nonno Salvatore: io sono orgogliosa di questo nonno, ma mi sento semplicemente sua nipote; quando si parla dell’eroe, tutti dovremmo essere normali e quindi tutti eroi, sono gesta che dovrebbero essere nella coscienza di tutti”. Sandro Veronesi ammette che “non credevo si sarebbe fatto davvero il film! Prima, De Angelis faceva pasta e patate e io scrivevo, poi c’è stato il lockdown e ci siamo separati, e io non pensavo si sarebbe potuti tornare a situazioni così pigiate, anche per gli attori, in più con 26 che ti hanno appena sparato addosso con cui dividere i centimetri quadrati. Era un film sull’accettazione della promisquità. Io non sono uno sceneggiatore, non era la mia prima volta ma quasi, e sono dovuto passare dalla comfort zone, così sono passato dal libro: ci sono state prima cinque versioni della sceneggiatura, poi l’idea del libro, e poi altre sette versioni della sceneggiatura, una specie di loop che non pensavo potesse ingenerarsi”.

Nel film, con il Comandante, sul Cappellini, c’è Marcon (Massimiliano Rossi), marinaio esperto e, soprattutto, suo “miele” di queste missioni, perché nel suo accento veneto Todaro ritrova casa; c’è Gigino (Giuseppe Brunetti), il cuoco napoletano che – quando il cibo scarseggia – sa raccontare le prelibatezze più deliziose, così che l’immaginazione sia sfamata in quell’ingurgitare acqua bollita e nient’altro; con loro, c’è anche Vincenzo Stuppo (Gianluca Di Gennaro), arruolato ventenne che si offre di uscire dal sommergibile sottacqua per una riparazione, onorando la sua missione: “l’arte del marinaio è morire in mare”, ricorda Todaro. Proprio rispetto all’uso del dialetto veneto, Pierfrancesco Favino dice essere stato “meraviglioso. Siamo stati aiutati da Maria Roveran, attrice lei stessa nella vita, ma sul set come insegnante, dunque doppiamente generosa. La possibilità di usare questa cadenza è stata qualcosa in più per il film, perché non porta immediatamente a un calore: il veneto era una lingua che ti metteva al tuo posto; (nel film) l’emozione viene quasi dal mare, per cui quel dialetto si sposava con la realtà dei fatti”.

Poi, la storia – reale e filmica – racconta che sulla rotta delle Azzorre, il 16 ottobre del ’40, il Cappellini si imbatta nel Kabalo, battente bandiera belga, fin lì neutrale nel Conflitto mondiale: certo di aver di fronte un nemico, Todaro lo affonda, ma poco dopo accosta e raccoglie 26 naufraghi, fornendo loro viveri di conforto e portandoli a rimorchio: il cavo si spezza, i naufraghi finiscono a mare, e Todaro non tentenna a imbarcarli, con la promossa di portarli a terra, ben sapendo di dover convivere 48 ore con probabili nemici, “…una decisione contraria alle regole”, che lui prende, fermo, senza un istante di incertezza, guidato proprio dalla sua anima di “uomo di mare”: “…oggi noi e i nostri nemici, insieme, ci siamo salvati”. Per Favino: “casa mia è sempre stata ‘dove si mangia in 6 si mangia in 8’: forse è un punto di vista ingenuo, ma se questa è italianità, mi ci ritrovo e l’applico”.

Nel potente epilogo – da qualcuno recepito come eccesso di patriottismo, seppur suoni più come l’integrità del senso dell’umanità – uno scambio tra Todaro e il comandante belga, sopravvissuto, che gli domanda “perché ci avete salvati?”: “perché siamo italiani”, risposta questa che non contiene un orgoglio gratuito ma quel sentimento per cui il Comandante da sempre naviga e con cui riparte sentendosi “…invincibile, invulnerabile per salvare vite”: “penso che nulla di creativo venga dalla paura, non si può non fare una cosa perché si teme che qualcuno possa criticarla, contestarla. Le più grandi soddisfazioni le ho avute quando ho fatto qualcosa verso cui qualcuno poteva dire contro: avrei dovuto aver paura di fare un mafioso o un anarchico; c’è chi vedrà il suo Craxi, il suo Buscetta e chi il suo Todaro”, conclude l’attore.

Per Nicola Giuliano di Indigo Film – coproduttore con con Rai Cinema, O’Groove, Tramp LTD, VGroove, in collaborazione con Marina Militare, Cinecittà e Fincantieri – “chi fa il nostro lavoro legge una cosa e comincia a vederla, e così prova a farla: questo film era una macchina enorme per il nostro cinema, molto rischiosa, ma quando uno si innamora di una storia, e realizzata è ancora più bella, significa anche correre rischi, che non abbiamo ancora del tutto superato; il film è iniziato quando abbiamo detto ‘cominciamo a costruire il sommergibile’ fatto di ferro e legno, quando è stata piegata la prima lamiera”.

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30 Agosto 2023

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