Ottantuno anni, quaranta romanzi alle spalle, di cui trenta opzionati per il cinema e venti già diventati film, una straordinaria passione per la scrittura e un’incredibile capacità di dare forma a storie poliziesche in cui a parlare sono solo i personaggi, mentre l’autore “scompare”. Elmore Leonard, lo scrittore a cui il Noir in Festival di Courmayeur ha deciso quest’anno di tributare un grande omaggio e, soprattutto, di consegnare il “Raymond Chandler Award“, non ha nessuna intenzione di smettere di raccontare storie. Storie che prediligono un’ambientazione “casalinga”, come la città di Detroit, in cui vive, e gli anni ’30, quelli in cui era un ragazzino e vedeva ogni cosa intorno ammantata da un’aura epica. E’ il caso del suo ultimo romanzo, “Hot Kid“, da poco in libreria grazie a Einaudi: la storia del quindicenne Carlos Webster, a cui un giorno capita di assistere a un omicidio che cambierà la sua vita e gli farà decidere di diventare sceriffo. “Se nella mia storia c’è una pistola, sicuramente succederà qualcosa di avvincente”, è la sua filosofia. Prossimamente arriveranno in sala altre due pellicole nate dalle sue invenzioni: il remake di Quel treno per Yuma con Russell Crowe e Killshot, diretto da John Madden.
Lei è un autore molto prolifico e di straordinaria abilità narrativa. Come lavora? Come costruisce le sue storie?
Lavoro sempre da solo, scrivendo rigorosamente a mano, dalle nove di mattina alle sei del pomeriggio; nonostante le otto ore “da ufficio” il tempo corre via velocemente perché continuo a divertirmi a scrivere. Ho osservato questi orari per 55 anni. Cerco di usare più dialoghi possibile, iniziando di getto a scrivere le prime cento pagine e a creare i personaggi. Saranno loro poi a muovere la storia, che io stesso scopro insieme ai suoi protagonisti.
Qual è secondo lei il motivo del suo successo a Hollywood, che dai suoi romanzi o dalle sue sceneggiature ha tratto numerosi film?
Credo che l’appeal dei miei romanzi a Hollywood derivi proprio dal fatto di scrivere scena per scena e affidarmi molto alla ricchezza dei dialoghi. Questo rende sicuramente più semplice la trasposizione cinematografica anche se spesso, quando viene tratto un film da un mio libro, i dialoghi vengono cambiati a tal punto che quasi non li riconosco più…
Dalla sua penna sono nati grandi film come Jackie Brown, Get Shorty e Out of Sight. Cosa pensa di questi adattamenti per il grande schermo?
Sono quelli che amo di più e che considero meglio riusciti. John Travolta ha dato vita a un ottimo personaggio in Get Shorty, anche perché il regista gli aveva chiesto di attenersi al dialogo scritto, che aveva un ritmo preciso, e la cosa ha funzionato benissimo. Al contrario di ciò che è successo per Be Cool, che non è un bel film.
Qual è invece il più brutto?
Senza dubbio The Big Bounce. Appena l’ho visto ho pensato che fosse il secondo peggior film mai realizzato, immaginando che dovesse pur essercene uno peggiore. Ebbene, ho scoperto quale fosse il primo quando ne hanno fatto il remake!
C’è un regista italiano che ama particolarmente?
Mi piacque moltissimo Professione reporter, in cui Jack Nicholson aveva un bellissimo ruolo, e ho amato molto anche L’avventura. Trovo che Michelangelo Antonioni sia un gran regista.
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