Philip Seymour Hoffman, uno dei più grandi attori della sua generazione, forse il più grande, è stato trovato morto nel bagno del suo appartamento al West Village. Probabile overdose, ha fatto sapere la polizia. Era stato un amico, preoccupato perché non riusciva a raggiungerlo, a scoprire il cadavere dell’attore nella mattinata di domenica, la siringa ancora infilata nel braccio, vicino al cadavere buste di eroina con il marchio dell’Asso di Picche e dell’Asso di Cuori. Hoffman, proprio come Truman Capote, l’autore di A sangue freddo che nel 2005 gli aveva fatto vincere l’Oscar, aveva avuto in passato gravi problemi di droga e in maggio si era fatto ricoverare una decina di giorni in riabilitazione per abuso di eroina: “Ero caduto dal carro – aveva spiegato in un’intervista – dopo essere rimasto pulito per 23 anni”. Da allora pareva che tutto fosse tornato a posto visto che l’attore stava per iniziare le riprese di un nuovo film in Europa. Una piccola folla si è radunata sotto la casa al numero 35 di Bethune Street, subito recintata dalla polizia. Un uomo ha deposto una rosa rossa sui gradini dell’edificio, è arrivata l’ultima compagna dell’attore, la costumista Mimi O’Donnell. Increduli gli amici: “L’avevo visto questa settimana in strada, dopo che aveva lasciato le figlie a scuola. Mi sembrava in forma, sono senza parole”, ha commentato su Twitter Richard Turley, direttore creativo di Business Week. Hoffman aveva tre bambine: sarebbe dovuto andare a prenderle oggi a casa della madre ma non si era presentato all’appuntamento e lei aveva dato l’allarme. Sotto shock e listati a lutto i commenti: la notizia ha raggiunto molti vip mentre si recavano allo stadio per il Superbowl, l’evento sportivo per cui l’America si ferma e che quest’anno si gioca per la prima volta a East Rutherford di fronte a New York. “Era il migliore tra i migliori. Sembra impossibile che sia andato via”, ha commentato su Twitter l’amico e collega James Franco, mentre Jim Carrey, palesemente devastato, ha invocato la memoria del “Caro Philip, bella, bellissima anima. Per i più sensibili tra noi il rumore può essere troppo”.
Nato il 23 luglio del 1967 in una famiglia middle class nello Stato di New York, genitori separati da quando lui aveva 9 anni, Philip Seymour era stato rivelato negli anni ’90 con film come Happiness di Todd Solondz e The Big Lebowski dei fratelli Coen. Oltre all’Oscar per Capote, aveva collezionato nomination come non protagonista per Charlie Wilson’s War, Il dubbio in duetto con Meryl Streep (è un prete accusato di pedofilia) e soprattutto The Master di Paul Thomas Anderson in cui interpretava un affascinante manipolatore a capo di una setta che ricorda da vicino Scientology, un ruolo per cui vinse anche la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia. Con P.T. Anderson c’era un rapporto speciale: lo stesso regista l’aveva chiamato per tutti i suoi film, tranne Il petroliere, e tra l’altro l’aveva diretto in Boogie Nights e in Magnolia, dove impersonava un infermiere sensibile. I grandi registi della nuova onda americana hanno fatto a gara per averlo in squadra: da Anthony Minghella (Ritorno a Cold Mountain) a Cameron Crowe (Quasi famosi), da David Mamet (Hollywood, Vermont) a Spike Lee (La 25esima ora). Dopo l’Oscar di Truman Capote: a sangue freddo di Bennett Miller, sarà Sidney Lumet a offrirgli l’interpretazione indimenticabile per molti: il drammatico, debole e disperato criminale di Onora il padre e la madre. Di recente molti lo ricorderanno come lo spietato guru politico in Le idi di marzo di George Clooney e perfino i più giovani lo conoscono per la partecipazione alla saga di Hunger Games di cui avrebbe dovuto interpretare anche il prossimo capitolo.
63 ruoli, senza contare i successi teatrali, con scelte spesso scomode ma sempre lodate dalla critica e coronate nel 2000 dal Tony Award. Aveva voce calda e carismatica, tanto che spesso veniva accostato a Orson Welles, anche per il fisico imponente. Aveva voluto fare l’attore fin da bambino, dopo aver visto a 12 anni una produzione locale di “All My Sons”: “Fu l’esperienza che mi cambiò per sempre”, aveva raccontato in una intervista al New York Times: “Un miracolo. Ma questo tipo di amore così profondo per lo spettacolo ha un prezzo: recitare è una tortura perché sai che è una bellissima cosa. Desiderarla è facile. Cercare di essere grande, questa è la tortura”. Philip Seymour Hoffman se ne è andato alla vigilia del suo secondo film da regista che avrebbe girato in primavera. Il nuovo lavoro, dopo il promettente esordio del 2010 con Jack Goes Boating, era intitolato Ezekiel Moss ed era una storia quasi autobiografica. Ambientata nel Sud degli States con al centro un ragazzino orfano, conteso tra una madre vedova dal carattere forte e un vagabondo che parla coi morti. Dovevano esserne protagonisti Jack Gyllenhaal e la candidata all’Oscar Amy Adams.
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