BERLINO – L’opera dal minutaggio più importante alla Berlinale 2024 è Dying (in originale Sterben) del tedesco Matthias Glasner. Tre ore divise in cinque diversi capitoli, dedicati ai tormenti di una famiglia tedesca riunita dal dolore della morte di un figlio, compositore di successo, e della figlia alcolizzata. Un’avventura silente, famigliare, che fa della pacatezza una porta d’accesso nonostante l’imponenza della sua durata, più improntata alla contemplazione e al rispecchiamento. Dying è infatti una riflessione sulle famiglie, per quanto Glasner scelga di metterne al centro una tra le più disfuzionali degli ultimi anni. Tra sofferenze interiori e morti a lungo preannunciate, ogni grado di parentela porta con sé il proprio dolore.
Morte e solitudine sono il motore immobile di tutta la vicenda e si proiettano più volte sullo schermo attraverso simboli o citazioni dirette. Il figlio compositore, attorno al quale si ritrovano i malati e anziani genitori, stava lavorando a un’opera dal titolo “Sterben”, ovvero “morire”, come Mozart e il suo “Requiem in Re minore”, concluso il giorno prima di lasciare questo mondo. La sorella, cantante di grande talento, soffriva invece di un acuto alcolismo e nonostante gli impeti di slancio verso la vita (chiama il fratello solo quando ha bevuto troppo), il suo esatto contrario – fatto di desideri di morte – ha infine la meglio.
Dying nasce dalla necessità di Glasner di elaborare la propria vita dopo aver perso i genitori. È perciò un film personale, affrontato da una distanza che potrebbe apparire gelida, ma che è in realtà un approccio clinico alle grandi domande dell’esistenza. “Ho pensato al film nel momento in cui i miei genitori sono morti dopo molte sofferenze, poco dopo è nata la mia prima figlia” ha dichiarato il regista tedesco. “Ero molto triste e stanco. Ho iniziato a pensare ai rapporti che avevo con i miei genitori e perché decidiamo certe decisioni nella nostra vita, soprattutto perché non diventiamo le persone che vorremmo essere. Ero incastrato da queste domande, non volevo fare un film, volevo solo capire questi temi. Alla fine però avevo un film pronto”.
Glasner si carica sulle spalle la difficoltà di inquadrare l’invisibile. C’è la morte, ovvero l’assenza di vita stessa, che appare attraverso i volti di chi invece è ancora qui. E ci sono le vite che invece non abbiamo colto, rimaste nei fondali della nostra esistenza. Come la sorella, cantante talentuosa e destinata al successo, rapita dalle proprie stesse ombre. Quella di Glasner è un’ambizione che arriva allo spettatore in forme aggraziate ma sempre più lente e distanti dal nostro sguardo, come ermeticamente sigillate oltre il vetro di un museo; mostra sulla morte ma senza audioguida al seguito. I membri della famiglia arrivano uno alla volta, svelando vedute differenti e percorsi spesso lontani. Le performance dei quattro protagonisti scelti da Glasner sono contraltare alla regia scelta, con la coppia di anziani interpretati da Corinna Harfouch e Hans-Uwe Bauer perfetti nel duplice ruolo di “sopravvissuti” e assieme travolti dalle circostanze nefaste della vita.
L’imponente ruolo svolto dalla musica in Dying è l’elemento di maggior attrattiva nel racconto. Il compositore Tom, di cui scopriamo l’arte per gradi, è un personaggio sfaccettato, capace di produrre divisioni e contrasti grazie alle sue interpretazioni musicali. Lars Eidinger lo porta in scena con il rigore dei grandi artisti e sorregge i momenti più intensi del film. Nonostante la distanza che Glasner impone tra eventi dello schermo e sguardo dello spettatore, nel momento del ritrovo al capezzale dei figli, Dying costruisce una resa dei conti con cui è facile empatizzare.
A Glasner è doveroso riconoscere la forza di un cinema che resiste all’esagerazione, libero da ogni invito al pianto. La commiserazione è attentamente evitata nonostante la galleria di sofferenze, alla cui fine poca luce ci è concessa incontrare. È così che Glasner trasforma un film personale in una questione universale, che tocca temi come la solitudine e il suicidio attraverso figure emblema dell’esistenza. “Questo film – ha concluso il regista presentando Dying alla stampa della Berlinale e fugando così ogni dubbio – è un invito a guardarsi dentro”.
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