Non succede a tutti i flop di diventare cult. Ma quando avviene che un fiasco totale di pubblico e critica assurge nel corso degli anni allo status di opera celebrata a livello mondiale: si assiste ad una vera rivoluzione della percezione. È il caso di Dune diretto da David Lynch che proprio in questi giorni (l’uscita fu il 14 dicembre 1984) compie 40 anni dalla prima release nelle sale americane.
Basato sul romanzo di fantascienza Dune di Frank Herbert (1965), considerato una pietra miliare del genere, il film arrivò sul grande schermo con un fragoroso tonfo. La sua accoglienza? Gelida. A dir poco. Il guru della critica americana Roger Ebert lo definì “un caos completo” e “un viaggio inutile nelle profondità di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi”.
L’autorevole Janet Maslin del New York Times non fu molto più gentile scrivendo sulle colonne del suo prestigioso quotidiano: “Solo i personaggi dotati di poteri psichici possono capire cosa stia succedendo nel film.”
Dune nasceva sotto i più cattivi auspici con una produzione a dir poco travagliata. Il primo a cercare di cavare fuori qualcosa dal buco abissale del romanzo, fu negli anni ‘70 il produttore di Il Pianeta delle Scimmie, Arthur P. Jacobs , e da lì passò tra le mani di registi visionari come Alejandro Jodorowsky e di promettenti maestri del blockbuster di qualità, vedi Ridley Scott, prima di finire in quelle di David Lynch.Jodorowsky progettò una versione di dieci ore con Salvador Dalí tra i protagonisti e una colonna sonora dei Pink Floyd, ma il progetto naufragò, lasciando il posto alla visione cupa e surreale di Lynch.
Nonostante il flop commerciale, Dune ha conservato un fascino unico e controverso, dimostrando di essere una sfida ambiziosa, sebbene imperfetta, nel tradurre un’opera letteraria tanto complessa sul grande schermo.
Se Star Wars aveva reso la fantascienza un genere accessibile e accattivante, Dune sembrava voler fare l’opposto. Mentre George Lucas incantava il pubblico con la semplicità del “viaggio dell’eroe”, Dune presentava un universo oscuro e stratificato, popolato da intrighi politici, misticismo e lotte per il potere su Arrakis, il pianeta desertico al centro della storia.
Herbert aveva costruito nelle sue pagine un mondo ricco di dettagli, dove le famiglie reali si scontrano per il controllo della spezia melange, una risorsa di inestimabile valore e dove la spiritualità, le religioni, gli intrighi di Palazzo formano una ragnatela narrativa tanto complessa quanto attraente.
Trasformare tutto ciò in un film di due ore e 17 minuti si rivelò una missione quasi impossibile. Il risultato? Un’opera carica di dialoghi esplicativi, in cui i personaggi spiegano più di quanto mostrino. Parole come “Kwisatz Haderach”, “Landsraad” e “Bene Gesserit” bombardano lo spettatore nei primi minuti, senza alcun contesto che ne renda chiaro il significato.
Il film manca anche di quella umanità che rendeva memorabili i personaggi di Star Wars. In Dune, non c’è un Han Solo pronto a conquistare il pubblico con il suo carisma: al contrario, troviamo figure rigide, quasi marionette, immerse in un’atmosfera iper-drammatica e alienante.
Eppure, nonostante le sue evidenti lacune di sceneggiatura e la messa in scena debordante, Dune possiede una qualità che pochi film possono vantare: un’identità visiva inconfondibile. Lynch, con il suo stile surrealista, crea un universo che non è pensato per confortare lo spettatore, ma per sfidarlo.
Le sequenze oniriche, punteggiate da immagini disturbanti come feti fluttuanti ed energie luminescenti, si avvicinano più a 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick che alla trilogia di Lucas. Scene come l’incontro dell’Imperatore con il Navigatore della Gilda – un essere mutante in una gigantesca vasca mobile – comunicano un senso di meraviglia e inquietudine, lasciando intuire che qualcosa di immensamente complesso si nasconda sotto la superficie.
Anche le scenografie giocano un ruolo fondamentale nel creare un mondo futuristico ma intriso di elementi arcaici. La corte imperiale, con i suoi dettagli barocchi, ricorda una versione fantascientifica della Russia imperiale, sottolineando il tema centrale del romanzo: per quanto l’umanità possa evolvere, certi aspetti della sua natura rimangono immutati.
Dal punto di vista tecnico, il film non brillava per effetti speciali, ma compensava con un uso sapiente dei modellini e delle scenografie in miniatura. La scena in cui la flotta degli Atreides lascia il pianeta Caladan è un esempio perfetto: le gigantesche navi spaziali si muovono con una maestosità che trasmette un senso di scala epico.
I vermi delle sabbie, creature simbolo del romanzo concepite dal genio italiano di Carlo Rambaldi, appaiono altrettanto imponenti sullo schermo, enfatizzando la desolazione e il mistero del deserto di Arrakis.
Lo stesso autore Frank Herbert, poco prima di morire nel 1986, dichiarò di essere soddisfatto della rappresentazione del suo universo, pur riconoscendo i limiti dell’adattamento. E forse è proprio questa la chiave per apprezzare Dune: non come un’esperienza cinematografica completa, ma come una serie di momenti che catturano lo spirito di un worldbuiling che non ha paragoni con nessun altro.
Rivederlo oggi è come sfogliare un’edizione illustrata del romanzo, dove ogni scena è un dipinto che ci invita a perderci nei dettagli. Certo, è un’opera frammentaria, ma con una densità visiva e tematica che la distingue nel panorama della fantascienza cinematografica.
A 40 anni dalla sua uscita, Dune di David Lynch continua a far discutere, dividendo chi lo considera un capolavoro incompreso e chi un disastro ingiustificabile. Forse è entrambe le cose. E proprio per questo vale ancora la pena parlarne.
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