BERLINO – Un serial killer letterato e un poliziotto che ribalta tutti gli schemi del genere, pur partendo dagli stereotipi della detection, sono al centro di Dostoevskij, la prima serie scritta e diretta dai fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo. La presentano proprio a Berlino, dove vennero nel 2018 con l’esordio folgorante La terra dell’abbastanza e tornarono nel 2020 in concorso con Favolacce, vincendo l’Orso d’argento per la sceneggiatura.
Timidi e giovanissimi – allora – ma con idee ben chiare di un loro percorso che parte anche dal retroterra autobiografico e da un preciso gusto qui quasi alla quintessenza. Squallore, cieli grigi, bambini abusati, la desolazione di un mondo senza speranza, villette a schiera e baracche che nascondono destini indicibili, un senso di marciume e decomposizione, una viscerale incapacità di vivere.
La serie Sky Original – prodotta con Paco Cinematografica – che Berlinale Special propone in anteprima sarà prossimamente al cinema con Vision Distribution e quindi su Sky. I gemelli, nati a Roma il 14 luglio del 1988, applauditi per il disperatissimo Favolacce, hanno creato una narrazione in sei episodi che vuole essere un noir esistenzialista con protagonista Filippo Timi nel ruolo di Enzo Vitello, poliziotto tormentato, che fa uso di droghe e che vediamo nella prima scena tentare il suicidio. Tra vomito, orinatoi e persino una colonscopia in primo piano, la vicenda si snoda attraverso un duplice binario: la ricerca del serial killer soprannominato Dostoevskij perché lascia accanto alle sue vittime lunghe lettere meditative, e il mancato rapporto con la figlia adolescente Ambra (Carlotta Gamba, vista in America Latina e nel Dante di Pupi Avati): la ragazza conduce un vita borderline e soprattutto odia il padre e non perde occasione di dimostrarglielo.
Citando Heidegger (l’essere gettati nel mondo) e, per contrasto, David Hume (“Io credo che nessun uomo abbia mai gettato al vento la sua vita, quando valeva la pena di conservarla”), i gemelli indagano “le estreme conseguenze dell’essere vivi”. E ancora “un uomo che ha perso tutto in una terra di uomini che hanno perso quasi tutto, un uomo che ha scelto di perdere anche se stesso. O forse no”. Per Enzo Vitello il serial killer filosofo è quasi un maestro di vita e certamente uno specchio oscuro in cui guardarsi. Mentre per il collega giovane poliziotto rampante (Gabriel Montesi) è solo un caso da risolvere velocemente per fare carriera.
Come nasce il progetto? E come dovremmo definirlo: un film di sei ore?
Fabio. Direi un romanzo. E’ stato alchemico l’incontro con Nils Hartmann di Sky. Ci chiese un noir, in dieci minuti scrivemmo il plot, poi c’è stato un lungo lavoro di scrittura. Tante discussioni per capire cosa volevamo esplorare.
Cosa volevate esplorare?
Fabio. L’inverno di un essere umano. Un uomo che ha il dovere e il desiderio di inseguire un assassino, di intercettarne il sapore di morte, in un inverno che sembra non avere inizio né fine. Volevamo un ambiente scarnificato, luoghi dove creare un mood che non esistesse. Abbiamo lavorato sull’archetipo del detective, un uomo che ha rinunciato a se stesso.
Come è stato collaborare con Sky?
Fabio. La vera innovazione di Sky è dare al pubblico il diritto di scegliere qualcosa che sembra non aderire a modelli preconfezionati. Sono stati mesi di riprese complicati, ma io sono innamorato di Dostoevskij, c’è tanta oscurità in questo lavoro, ma per me parla della possibilità del cambiamento. Nel momento che stiamo vivendo accende la speranza nel nostro cuore. La nostra scelta può essere ambigua, ma non faremo mai niente per calmare le acque.
Come siete arrivati a Timi, che porta tutta la serie sulle spalle con 296 scene?
Damiano. Questo è il nostro quarto film e non abbiamo mai preso gli attori a scatola chiusa. Ma sapevamo che sarebbe stato Timi, per la malinconia che ha e che sentiamo simile alla nostra. Ha fatto un provino bellissimo e quando è uscito ho visto che aveva abbracciato un albero e mi sono ancora più convinto.
Timi. Empaticamente ho capito che il personaggio era profondo ma anche molto fragile. Ho pensato a Carmelo Bene quando sostiene che l’attore è femminilità portata a coscienza. I fratelli D’Innocenzo non spiegano niente ma nella scrittura mi hanno steso. Scrivono cose come “in cielo un temporale feroce come un litigio tra fratelli” oppure “cammina come un fiore”.
Ci sono scene piuttosto forti, come la colonscopia.
Fabio. Come spettatore devo entrare prima di tutto dentro un’atmosfera. Ci sono cose intangibili e inconsce come la fotografia. Le scene sono piuttosto forti, ma volevamo permettere al pubblico di perdersi dentro i luoghi, capire i volti, le abitazioni. Nella struttura c’è una progressione pneumatica. Non vuol dire essere snob nei confronti del pubblico, ma noi chiediamo un approccio attivo.
Cos’è per voi la bellezza?
Damiano. Il gesto di cercare la bellezza è esso stesso bellezza. Noi raccontiamo gli ultimi e quando non lo abbiamo fatto, come in America Latina, abbiamo sbagliato. Il protagonista era un personaggio medio borghese, sono vite che ci interessano meno.
C’è totale assenza di giudizio.
Fabio. Questo ce lo portiamo appresso da una vita. Siamo curiosi e osserviamo tutto senza cadere nella trappola del giudizio, questa è la mia definizione di bellezza. Siamo già in una dittatura di pensieri, perché farlo anche noi? Siamo democratici, ci piace che ognuno possa prendere in simpatia o in odio un personaggio. Il nostro cinema rispecchia come siamo fatti Damiano ed io.
Avete lavorato con nuovi collaboratori, come Walter Fasano al montaggio, già al vostro fianco da “America Latina”, e soprattutto Matteo Cocco alla fotografia.
Damiano. Ci siamo spogliati perché dopo tre film abbiamo cambiato tutta la squadra tecnica. Si era persa quella sana paura. Volevamo girare in pellicola e avevamo bisogno di un dop che non avesse mai usato la pellicola, proprio come noi, per scoprire insieme quel mezzo.
Nella serie si fa molto uso di sostanze, psicofarmaci, droga.
Fabio. Enzo Vitello non poteva che avere delle necessità farmacologiche avendo qualcosa di indicibile da combattere. C’è questo tabù morale della malattia mentale, ma io non mi vergogno a dire che faccio uso di farmaci perché soffro di un disturbo.
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