Frontiere, migrazioni, sradicamenti. È la tratta delle nere nel caotico musical di Roberta Torre, finalmente alla luce dopo due anni e passa di andirivieni produttivi ed esitazioni tra Cannes e Venezia. Sud Side Stori, imperfetto, almeno ti fa vedere oltre il tg o le ragazze nigeriane che si vendono nella notte di Palermo come in qualsiasi notte italiana. E lo fa con il camera-car più inquietante del cinema italiano, l’Ape Piaggio del “Capitano” che contratta in poche parole e sguardi d’odio. Mentre altre puttane si nascondono negli antri di una città-utero che neanche la Roma di Fellini. Ed è tutto grottesco e soffocante, veramente brutto. Con la sabbia del deserto che invade il vicolo Anello, tra tende fatte di lenzuola e i colori della plastica da millelire al pezzo che creano subito l’effetto suk.
Il film di Roberta Torre – Sogni e visioni – porta scritta addosso la fatica di recuperare un qualche rapporto con l’estraneo, che arrivi dall’Africa o dall’Albania poco importa. Un melting pot impossibile, se non in musica (e anche lì c’è gente che si sfida: l’americano Little Tony contro il verace Mario Merola “carcerato”). Che sia così lo dimostrano persino i battibecchi che fanno “colore” alla conferenza stampa ma che raccontano di incomprensioni vere, di razzismi reali (altro tema del festival: vedi Liam). Forstine e Amaka sono in lite con le zie perché quelle lì sono strane, “volevano i cestini diversi sul set”, mentre le bianche, dicono le altre, sono quelle che mangiano “la pasta col forno e panino col salsiccio”. Nppure il cibo – cioè l’essenziale – ti aiuta a capirti. Forstine, bella e altera come una principessa, non è che non fosse mai andata a un festival: non era mai stata al cinema e qui ha scoperto di essere nata lo stesso giorno di Berlusconi ma forse non saprà mai esattamente chi è. E il linguaggio fa cortocircuito. Nel film, fuori dal film, nella testa dello spettatore. Non aspettatevi di ridere come con Tano. Aspettatevi di uscire confusi, infastiditi.
Già, perché da Sud Side Stori si esce con la contraddizione di una hit travolgente nella testa ma è proprio disturbante canticchiare lo sfruttamento dei corpi neri. Mentre da Freedom del lituano Sharunas Bartas – per l’Italia coraggiosamente comprato dalla Lantia – ci si porta appresso la sensazione pacificante di aver assistito a una sacra rappresentazione medievale, nonostante il sangue versato e le mosche che si appiccicano agli occhi. Andamento musicale, tra Bach e Arvo Pärt, per un cinema fatto di silenzio dove l’immagine e il suono – il vento, il mare… – riprendono il potere assoluto sulla parola e la parola regredisce nell’incomprensibile. È il ritorno dell’umano verso l’inorganico attraverso il contatto, e il contrasto, con la natura.
Ma anche lì uomini alla deriva, tra l’oceano e la costa atlantica del Marocco: un cargo rugginoso intercettato dalla guardia costiera, il naufragio, il confronto con la vastità della terra e del mare, l’impotenza umana a paragone con la perfetta integrazione animale. Mai lo sradicamento contemporaneo è stato così lampante. Incommensurabile.
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La redazione va in vacanza per qualche giorno. Riprenderemo ad aggiornare a partire dal 2 gennaio. Auguriamo un felice 2018 a tutti i nostri lettori.
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