DIARIO#6


Una cosa è certa. Il partigiano Johnny non è un nuovo caso Porzûs. Il film di Guido Chiesa può non piacere ma non pretende di dare la linea. Non si schiera da una parte o dall’altra. Non riapre polemiche resistenziali. Riguarda più D’Alema che Edgardo Sogno. “Il mio film prende una posizione politica molto forte, ma sul presente”, ripete Guido Chiesa. Dipiaciuto che non si parli del film: “non sono un leader, le mie opinioni riguardano solo me”, sbotta in conferenza stampa dopo un’intera mattinata passata a rispondere sulla storia d’Italia, di ieri e di oggi.
Classe 1959, piemontese, cresciuto artisticamente in America nell’ambiente degli indipendenti, autore (anche) di videoclip, appassionato di musica (martellante e minimalista quella di Alexander Balanescu usata come straniata colonna sonora della lotta antifascista), Chiesa la Resistenza ce l’ha nel Dna. Magari non molti se lo ricordano, ma ha esordito nel lungometraggio proprio con un film “resistenziale” che si chiamava Il caso Martello e rifletteva sulla rimozione dell’antifascismo dal presente (si erano appena chiusi gli orribili anni ’80 e in quella storia si fronteggiavano un assicuratore rampante e un vecchio strano contadino con un segreto nascosto). Resistenza metabolizzata lungamente, a tappe, con i lavori sulle immagini di repertorio, le interviste, le ricostruzioni documentaristiche (Materiale resistente insieme a Davide Ferrario: notevole) persino una vita di Beppe Fenoglio (Una questione privata) che gli ha conquistato la fiducia della famiglia dello scrittore scomparso nel ‘63, cioè della vedova e della figlia Margherita (lei è qui al Lido dove vedrà il film per la prima volta completo).
Questo lavoro per metabolizzare la materia – fin troppo: Chiesa questo progetto l’ha covato per quindici anni fino a trovare una sponda produttiva in Domenico Procacci – spiega forse, paradossalmente, i limiti del film. Costruito in sottrazione, sottintendendo il contesto, come per dare la percezione in soggettiva della vita sulle montagne e anche la confusione di quei mesi. Dialoghi ridotti al minimo, personaggi che entrano ed escono dalla scena in medias res e non sai mai bene chi siano, scontri a fuoco improvvisi, quasi immotivati, un eroe antieroe e individualista. Bastano i fazzoletti al collo, rossi o azzurri, a dire degli schieramenti, delle contrapposizioni che in Porzûs, viceversa, erano ostentate. I comunisti, i badogliani, quelli che vengono dall’esercito, i contadini e gli intellettuali, le spie, i fascisti, i repubblichini, i tedeschi: tutto è mischiato come, immaginiamo, poteva esserlo per chi stava vivendo in diretta quei momenti. Come la guerra in generale: e il cinema americano ce l’ha insegnato da Salvate il soldato Ryan in giù. Ma è difficile, per chi non conosce il romanzo postumo di Fenoglio (1968), districarsi nei passaggi e nei toni. Il “pensiero” di Johnny-Fenoglio (Stefano Dionisi, in scena per due ore e un quarto, sempre) è appena più esplicito attraverso qualche brandello del libro letto dalla voce off.
Che peccato: Il partigiano Johnny è un film che tenta di fare un salto in avanti rispetto al cinema resistenziale “classico” e anche a quello recente – impossibile non pensare a I piccoli maestri di Luchetti, una grande delusione qualche Mostra fa – ma non ci riesce. Ed è un dispiacere veder scivolare una regia tanto meditata nella costruzione televisiva dell’immagine, nell’artificio del set. Resta la cosa più importante: come reagiranno gli spettatori giovani e molto giovani. Quelli che hanno visto il film, finora, hanno capito e amato questo personaggio coerente e contemporaneo, assicura Chiesa. Magari sono gli stessi che faranno la fila per il fumetto bellico della giornata, U-571, il grande giocattolone messo su da Dino De Laurentiis. Lì, di sicuro, non c’è niente da capire.

autore
05 Settembre 2000

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