DIARIO#0


Venezia 57, sarà svolta per il cinema italiano? Quattro film in concorso sono tanti. E già fanno rivincita sulla catastrofe della scorsa edizione (i due italiani in competizione, De Bernardi e Zanasi, furono fatti praticamente a pezzi) e su un’annata fiacca, deprimente e quel che è peggio denigrata da commentatori a vario titolo, spesso ai limiti dell’autolesionismo.
Tutto bene, allora? Non è detto. Alberto Barbera smorza gli entusiasmi troppo facili: “C’erano pronti quattro buoni film, io li ho presi. Il resto, purtroppo, è silenzio. Dietro una sparuta pattuglia di bei film, il cinema italiano continua a languire nei soliti mali. Primo fra tutti: la mancanza di strategia e di serietà”. E fa notare, il direttore, che i nostri lungometraggi sono in tutto dieci. Nemmeno una squadra di calcio…
Gli scettici restano scettici fino all’ultimo. Goffredo Fofi, il più intelligente dei guastafeste, è onnipresente. Ha intervistato Barbera su Panorama (online all’indirizzo www.mondadori.com/panorama) ma più che intervistarlo l’ha messo con le spalle al muro in un “faccia a faccia che ha il sapore della resa dei conti” (con il Leone a Eastwood questo è decisamente l’anno del western all’italiana!). Le riflessioni dell’antiveltroniano Fofi, si sa, sono sempre impietose: “Il problema vero è quello di una classe dirigente del cinema che non è diversa dal resto della classe dirigente italiana, arruffona e dedita al culto del “particulare” o del familismo amorale. Nel cinema è quasi solo romana e “di sinistra”. Oppure vige la legge di attaccare l’asino dove vuole il padrone, cioè Vittorio Cecchi Gori. Il legame cinema-politica e cinema-stato non è affatto cambiato. E Roma ha risucchiato e castrato le energie di un cinema decentrato, con talenti di Milano, Napoli, Palermo, perfino Torino”.
Duro, ma non spietato, come un Clint della critica militante, Fofi – stavolta sul supplemento domenicale del Sole-24 ore – loda la gestione da “buon funzionario piemontese” di Barbera. Un “normalizzatore” attento ai bisogni (mangiare, dormire…), esente dalle trasandatezze e volgarità delle gestioni precedenti.
È il genio che manca – non solo in Italia, del resto – e sono l’incancrenimento e l’incapacità di vedere una realtà complessa, mutevole e feroce come quella italiana che soffocano il talento.
Latita anche il “gioco di squadra”, suggerisce Fabio Ferzetti sul Messaggero. “Tra i film e dentro i singoli film bisognerebbe connettere i linguaggi, mettere in contatto passato e presente”. Gli italiani di Venezia 57, aggiungiamo noi, sono tanti ma non fanno una tribù e neppure una scuola. Figurarsi una cinematografia. Sparpagliati e non vincoli, come avrebbe detto Totò. Eppure dotati di gerarchie e addirittura di un Gotha, che Ciak ha definito in dettaglio stilando una “power list” del cinema italiano – in testa Benigni, Bernasconi della Medusa, Vittorio Cecchi Gori, Aldo Giovanni & Giacomo, Rossana Rummo, i due De Laurentiis, Carlo Macchitella di RaiCinema.
Gli autori, comunque, non comunicano. Forse neppure si conoscono. Certo sono ben poco in osmosi. Noi scommettiamo, però, che qualche bel percorso salterà fuori. Politico, onirico, sociale. Chissà. Proviamo a immaginare.

La politica degli autori? Il sociale
Se non esiste più una “politica degli autori”, può bastarci sapere che molti autori fanno (o sono tornati a fare) politica. Con i mezzi del cinema, naturalmente. E con uno sguardo storico oppure sociale. Daniele Segre, il cineasta più visibile alla Mostra con tre diverse opere di cui una monstre, ha filmato il suo Heimat sulla chiusura dell’Unità, 25 ore che vedremo ogni giorno e che faranno di certo discutere magari più che alla “festa” di Bologna… Guido Chiesa ha scelto la Resistenza anomala di Fenoglio, niente celebrazioni con Il partigiano Johnny ma la riapertura di un dibattito centrale – e rimosso almeno quanto la fine della sinistra comunista – per l’identità italica.
Matteo Garrone, tra i più giovani al Lido, fa una visita guidata a Roma che è il contrario del Giubileo-tour. Parte da Piazza Vittorio, crocevia multietnico e non privo di oscurità – l’assalto agli immobili e ai commerci dato dalla famiglia cinese, più potente e organizzata rispetto agli altri extracomunitari – di una metropoli in trasformazione, innesta l’oggi con riferimenti agli anni ’70 (il teatro off, il movimento). Isabella Sandri – con Gaudino – anche lei sulle strade della periferia romana, con protagonista una generazione zero del degrado, senza padri e madri, propone Animali che attraversano la strada. Ma anche nei corti a tema sulla “monnezza” di Buy-Piccioni, Di Majo, Freschi-Maderna, Zagarrio, Segre troviamo riflessioni sulla miseria del primo mondo.
Ed è già terzo, “quarto mondo”, la Palermo della tratta delle nere secondo Roberta Torre, in un musical millenarista e lugubre, atto d’accusa contro il falso modello dell’integrazione razziale, con brandelli di documentario sui clienti delle prostitute che qualcuno vorrebbe incriminare e qualcuno assolve (altro dibattito in corso), ma intanto le nigeriane e tutte le ragazze del Sud del pianeta vengono vendute e comprate in una eterna Sud Side Stori.
Ancora Sicilia in due opere fondamentali. I cento passi di Marco Tullio Giordana, che racconta di Peppino Impastato, un indiano metropolitano contro il boss Badalamenti, ma anche un ribelle contro la famiglia, nei due sensi e con tutta l’ambiguità del termine, ed un caso ancora aperto per la giustizia italiana; Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca, con Corleone, al posto di Cinisi, il ’48 invece del ’68, gli anni d’apprendistato di Luciano Liggio e l’insofferenza di due ragazzi, Placido e la sua bella, alle regole del clan, di padri e madri padrone.
Poi via, verso Nord, direzione Nordest. Con il padovano Mazzacurati e La lingua del santo. Altro che boom: due balordi vogliono svoltare e s’inventano un business. Circolano soldi e santini, anche qui. Proprio come in Sud Side Stori: Santa Rosalia e corpi in vendita per trentamilalire.

Nostalgie e deliri
Saranno anche più deliranti del solito, gli italiani in Mostra. Almeno c’è da augurarselo. Lo sarà Gabriele Salvatores, per la prima volta ad affrontare il concorso, con un suo incubo odontoiatrico-psicanalitico, un film, dice l’autore, girato in dormiveglia. Lo sarà Roberta Torre, che strasporta la Casbah e le sabbie dell’Africa nei vicoli di una Palermo a tratti “felliniana”. Lo sarà Matteo Garrone, capace di rendere astratti pezzi di documentario come ha già dimostrato con i suoi lavori precedenti. Lo sarà forse anche Mazzacurati, se è vero che Sant’Antonio entra in scena ed è Marco Paolini. Di sicuro lo sarà Tonino De Bernardi con il suo Rosatigre en travesti.
Sulla carta il cinema italiano torna addirittura felliniano. E intanto affiorano altre nostalgie dichiarate: Marco Ferreri nel documentario di Fiorella Infascelli, Bertolucci secondo Amelio, Tornatore sognato da un cineasta gallese (Marc Evans). Persino un intero secolo di nostro cinema – Rossellini e De Sica in primis – rivisitato con lo sguardo d’adorazione pura dell’ex ragazzo di Little Italy, Martin Scorsese, sempre che il suo Viaggio in Italia faccia in tempo ad arrivare al Lido.

Oltre i generi, forse c’è il corpo
Generi? Commedia, musical, film storico, giallo di denuncia, love story… Ci sono più o meno tutti. Ma oltre i generi, oltre lo spirito fin troppo perbene di molto cinema italiano, troviamo finalmente i corpi (d’attori e non solo). Così in Lontano dagli occhi in fondo al cuore di Giuseppe Rocca, alla Settimana della critica, che narra un amore infantile nella Napoli postbellica. O in Rosatigre di Tonino De Bernardi con Filippo Timi attore-autore tra Torino e Napoli, in un ruolo transgender e provocatorio di “prostituto” innamorato. O nella Sicilia sensuale e ambigua di Scimeca, dove il mafioso usa lo stupro e la seduzione più che la lupara. O nelle movenze sguaiate e affascinanti delle nigeriane di Roberta Torre. Vi faremo sapere.

30 Agosto 2000

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