Spello – Nato nel maggio del ’92, Ludovico Di Martino perfettamente incarna il profilo del talento under 30, calzante con il Premio “Meno di Trenta” – ideato e promosso da Stefano Amadio e Silvia Saitta -, che gli conferisce un riconoscimento Speciale nell’ambito della premiazione del Festival del Cinema Città di Spello, in corso fino al 20 giugno.
Di Martino si è misurato con la serialità, quella di SKAM 3, e con un film di genere, La belva, interpretato da Fabrizio Gifuni.
Ludovico, un artista che tale sia dovrebbe avere in sé la versatilità, e stare dietro la mdp di un teen drama seriale e di un action thriller sono due prove significative in tal senso. In cosa, personalmente e professionalmente, è stato continuativo tra SKAM 3 e La belva, e in cosa, creativamente e tecnicamente, ha dato un passo differente?Ho iniziato da poco, quindi sto iniziando a capire, è difficile darsi già delle risposte, però sto mettendo a fuoco come il mestiere del regista sia un pò simile a quello dell’attore, ovvero ‘interpretativo’. Mi piace molto lo studio nell’approccio ad un progetto, è fondamentale la fase di guardare, quindi conoscere: sarà, quindi, il tempo a darmi la possibilità di leggere un filo rosso che connetta tutto. La sensazione che ho sempre di più, ribadisco, è che lavorare ad una serie o a La belva, sia davvero un atto di interpretazione: sono due cose differenti, ma l’attore/regista è sempre lo stesso, solo che si fa un uso di sé differente. Per esempio, il film a cui sto lavorando adesso è quasi un punto d’incontro tra i due progetti precedenti: non posso dare particolari, ma sarà d’avventura. SKAM, certo, è un progetto con un imponente lavoro con gli attori, e con imposizioni tecniche: io ero obbligato a usare solo la macchina a mano, quindi comunque lo stile viene anche dettato, in questo caso proprio perché si trattava di un remake, dunque devi lavorare su un tracciato iniziato da qualcuno, prima in Norvegia, poi da un’altra persona in Italia, perché io sono arrivato alla terza stagione; La belva è stata più un campo aperto, di cui mi sentivo davvero responsabile. Io credo nel dover ‘interpretare’ e il genere è un supporto, uno strumento che ti permette di potenziare, anche di fare affidamento ad un sistema di regole, e poi subentrano le storie con il proprio valore assoluto.
Per SKAM ha dovuto misurarsi con la delicatezza dell’adolescenza, con La belva con l’azione e il lato oscuro dell’umano: come si è preparato all’approccio di queste due differenti tematiche, e ha avuto riferimenti cinematografici specifici che ha tenuto come guida?
SKAM ha comportato uno studio della coscienza: dapprima ho visto la versione originale, stupenda, che nasceva con una regista, un fonico e un dop, con le scene scritte di giorno in giorno da lei, senza sapere dove la storia sarebbe andata a finire, pur prodotto dalla NRK, che è un pò come dire per noi la Rai, la generalista. Lo studio per La belva è stato ovviamente più complesso, molto divertente anche perché inevitabilmente ti misuri anche con film brutti: ho comprato una pila di DVD con Van Damme o di film rumeni, capolavori del trash; con La belva in fondo stavo approcciando ad un classico – un ex militare, a cui rapiscono la figlia -, e tu non puoi farlo senza aver guardato un pò quello che già esisteva e con Fabrizio Gifuni stesso abbiamo studiato un pò insieme, per cercare il nostro modo di approcciare il genere. È molto interessante che sul filone degli action Anni ’80 e ’90 ci fosse una mentalità di fare cinema meno presuntuoso e più concreto dell’attuale, per cui penso a Mario Bava, o prima anche alla produzione degli Western di Leone; io quando penso al ‘genere’ penso ad autori come loro, gente che ha fatto cinema in modi mirabolanti, picareschi, per cui il mio studio è passato anche per queste vie. I film brutti poi servono a capire cosa non si debba fare: eravamo coscienti tutti che non avremmo avuto i mezzi per fare John Wick, quindi il nostro lato europeo, l’anima un pò più attenta ai personaggi, era un contraltare importante, il nostro valore aggiunto. La mia paura più grande era di poter risultare ridicolo, perché era un genere rischioso: declinare un pò in commedia l’action rimane più leggero e anche la scivolata possibile rientra comunque nella direzione, mentre La belva era molto serio, cupo, quindi lo scivolone non te lo potevi permettere.
La belva, distribuito su Netflix, ha avuto il privilegio di restare nella top ten dei film più visti sulla piattaforma in 190 Paesi: la sua esperienza professionale è molto connessa alle piattaforme, qual è l’opportunità di questo tipo di visione e distribuzione?
Sicuramente l’abolizione del provincialismo: le piattaforme ci obbligano a fare i conti con un pubblico a cui non importa se tu abbia avuto pochi soldi, o non abbia mai fatto qualcosa del genere: su Netflix, allo spettatore brasiliano, per esempio, cosa può interessare se tu non hai mai fatto un film d’azione? Io stesso mi sono reso conto di essere stato il primo dei provinciali nel costruire un film che in Italia non s’era mai fatto, ma in realtà Netflix ti porta in 190 territori, come la Francia, Paese in cui l’action si fa da sempre ed è stato bello che La belva sia andato molto bene lì, cosa che mi ha molto colpito, perché tra gli europei sono coloro che più sono riusciti in quel genere, con uno sguardo personale. La piattaforma obbliga – con tanta difficoltà sì, ma altrettante opportunità di crescere – a considerare un pubblico che non è più quello limitato a te, a cui il tuo film sembra innovativo: basta con questa credenza e sì alla competizione con una ‘serie A’, in cui lo studio si dimostra fondamentale.
Ricevere un Premio che riconosce il talento under 30 carica un pò di responsabilità, oppure gratifica come testimonianza concreta a sostegno dell’avanzare della ‘nuova generazione’?
È un Premio che deve responsabilizzare sul fatto che non ci siano ancora abbastanza registi under 30 che riescono a lavorare, come io ho avuto la fortuna di fare: speriamo che tra un pò questa fascia anagrafica possa essere più competitiva e quindi anche un Premio di questo tipo. Il regista under 30 è una figura mitologica ancora da costruire: l’importanza di questo Premio sta nel ricordare che non esistono ancora abbastanza registi sotto i 30 anni a competere per questo riconoscimento.
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