Danis Tanovic nell’Hotel Sarajevo

Il regista bosniaco torna a Berlino in concorso con Death in Sarajevo, ispirato alla pièce teatrale di Bernard Henri-Lévy, messa in scena per il centenario dell'attentato all'arciduca d'Austria


BERLINO – Per Susan Sontag il XX secolo inizia e finisce a Sarajevo. Nel sangue. Dall’attentato all’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando per mano dello studente diciottenne Gavrilo Princip alle stragi di Srebrenica. Tutto questo è condensato dal regista bosniaco nell’ambizioso Death in Sarajevo, che unisce toni da commedia nera alla ricostruzione dei fatti storici, ancora controversi: Princip infatti è considerato di volta in volta terrorista o eroe. Tornato a Berlino in concorso, dopo aver vinto il Gran Premio della Giuria e l’Orso d’Argento per il miglior attore (Nazif Mujic) nel 2013 con An Episode in the Life of a Iron Picker, stavolta l’autore, premio Oscar per No Man’s Land, è partito dalla pièce teatrale Hôtel Europe di Bernard Henri-Lévy, messa in scena per il centenario dell’attentato che segnò l’inizio della prima guerra mondiale. Il film immagina che l’interprete del testo, l’attore francese Jacques Weber, scenda proprio all’Hotel Europa, grande albergo del centro storico della città che ai tempi della Jugoslavia di Tito era glorioso e a suo modo elegante, mentre oggi è in piena decadenza. La struttura è gravemente indebitata, il personale non riceve la paga da due mesi e minaccia di scioperare e manifestare proprio durante le celebrazioni, il direttore dell’hotel non esita a far intimidire i lavoratori da una banda di gangster che gestisce un locale di strip tease nel sottosuolo, mentre sul tetto viene registrato un programma televisivo sull’evento, insomma in un unico luogo che viene percorso con rapidi piani sequenza da un piano all’altro si concentra una vicenda sostanzialmente in tempo reale. “All’inizio avevo pensato a un documentario tratto dalla pièce di Bernard-Henri Lévy – ha spiegato Tanovic in conferenza stampa – c’è voluto molto per capire come far funzionare il film. Non è stato un processo facile. Quello che ho cercato di fare è connettere il mondo del teatro con quello del cinema e anche aggiungerci qualcosa di mio. Ci sono pezzi di teatro e momenti della pièce che vengono spiegati, alla fine si vede anche l’inizio della pièce. La cosa migliore sarebbe raccogliere in un unico dvd sia il testo teatrale che il mio film per poterli confrontare”.

Con una trama così intricata, che intreccia le storie private di tanti personaggi, e con i numerosi riferimenti al conflitto nella ex Jugoslavia, Death in Sarajevo rischia di restare un puzzle senza soluzione per spettatori stranieri non molto addentro alla storia balcanica. Ma Tanović spera che il suo settimo film arrivi al maggior numero di persone e ovunque: “Mi rivolgo agli spettatori di tutto il mondo e se notate una certa confusione, beh, benvenuti a Sarajevo. In Bosnia abbiamo una storia pesante alle nostre spalle che è difficile per tutti, soprattutto per noi, comprendere e spiegare. Il nostro paese vive troppo nel passato, più di altri. Non riusciamo a fare un vero lavoro sulla memoria. E’ bene che gli storici si occupino del passato e lascino noi a occuparci dell’avvenire. Ma, come si dice, l’avvenire è terribile e il presente insopportabile”. O, come dice un personaggio del film, raccontando un’amara barzelletta: “Un piccolo verme chiede al padre. Perché ci sono dei vermi che vivono nelle mele o nella carne e noi viviamo nella merda? Perché è la nostra patria, risponde il padre”. 

15 Febbraio 2016

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