Daniele Vagnozzi, nato ad Ancona, classe 1991, a 8 anni ha iniziato a scrivere canzoni. Con il tempo si è appassionato alla recitazione e durante l’università, studiando psicologia, ha capito che si occupavano della stessa cosa. “La recitazione è la parte teorica della psicologia. Ha a che fare con la comprensione dell’essere umano e dei rapporti umani”, dice a CinecittàNews l’attore, diplomato all’Accademia dei Filodrammatici di Milano.
Ora Vagnozzi è tra i protagonisti della commedia corale La spiaggia dei gabbiani di Claudio Pauri, attualmente nelle sale, dove recita al fianco, tra gli altri, di Giorgia Fiori, Veronica Baleani, Marco Brandizi e Diego Giangrasso. In questo road movie in barca a vela sul Conero, che segue un gruppo di amici, ex compagni di scuola, che si avventurano in una vacanza alla ricerca di un paradiso perduto fatto di risate, leggerezza e sogni, il 33enne interpreta Lele, uno stand-up comedian che usa l’ironia per nascondere la malinconia.
Daniele, come hai costruito il personaggio di Lele?
Leggendo la sceneggiatura, ho cercato di capire cosa ci fosse dietro alle sue parole e alle sue azioni. Parto sempre dalla psicologia per interpretare un personaggio. Lele è onnipresente nel film, anche se nelle scene di gruppo parla poco. Usa l’ironia per coprire la sua malinconia.
Che punti di contatto ci sono tra te e lui?
Sicuramente questo aspetto di usare l’ironia come arma per tenere i rapporti umani, connettersi alle persone e tenere a bada le frustrazioni e malinconie quotidiane. Io ho iniziato facendo teatro di strada e recitando testi di Massimo Troisi, che era il mio faro, e Robin Williams. L‘ironia è sempre stata una forma di libertà.
Nel film Lele dice: “Quando ero piccolo volevo diventare famoso per sentirmi meno solo”. È una frase in cui ti sei ritrovato?
Ci ho visto soprattutto il senso degli anni che stiamo vivendo. Un tempo questa battuta poteva essere legata solo agli attori, il voler diventare qualcuno per sentirsi più accettati. Oggi, invece, riguarda tutti nel mondo dei social. Rispecchia un sentimento contemporaneo forte che comprende giovani e adulti. Ognuno di noi è esposto, e in un modo o nell’altro vorrebbe essere celebre.
Quando hai scelto di fare questo mestiere?
Avevo voglia di capire le persone e i rapporti umani. Nasce anche da una delusione rispetto all’università di psicologia. Ho scelto quella facoltà perché mi interessava capire perché facciamo quello che facciamo. Mentre ero al primo anno della triennale a Bologna, ho iniziato a frequentare anche un laboratorio di teatro. E lì ho trovato la parte che mi mancava a lezione. Per me la recitazione è la psicologia pratica.
E tra psicologia e recitazione cosa hai scoperto di più di te stesso?
Non si finisce mai di scoprire qualcosa, e lo dico anche in modo frustrante. Il lavoro dell’attore diventa un viaggio di scoperta, di conoscenza. Si cambia come persona e come attore, ed essere sempre aggiornato su te stesso è faticoso, ma è anche la pratica più divertente.
Tu sei anche un cantautore.
Ho iniziato con la musica ancor prima della recitazione. Avevo 8 anni quando ho scritto le prime canzoni. Ho pubblicato dei brani su Spotify, e ora sono in uscita dei nuovi pezzi. Mi interessa la parte autoriale, mi aiuta anche nel lavoro di attore e di scrittura. Ho appena debuttato a teatro con lo spettacolo Tutti bene, ma non benissimo, un monologo brillante che parla del rapporto tra i giovani e la psicoterapia. Mi piacerebbe realizzarne una serie tv. Ho dei contatti con gli Stati Uniti e spero di creare una co-produzione per sviluppare questo progetto, come attore e co-sceneggiatore.
Quanto è difficile emergere in un momento come questo in cui ci sono molti attori della tua generazione?
Si sono sicuramente moltiplicate le occasioni, anche grazie alle piattaforme, ma siamo davvero tantissimi. Prima fare l’attore era qualcosa di mitico, sopratutto se venivi da una regione come la mia. Oggi sembra che tutto sia accessibile e facile, ma non è così. Anche tra i colleghi, vedo la fatica di fare questo mestiere e scontrarsi con un sistema che è una giungla, Sono stato in California lo scorso novembre, e lì è diverso. Nonostante i giovani attori siano comunque moltissimi, c’è una tutela maggiore. Per questo mi interessa anche la salute mentale degli artisti, bisogna mantenerla ben salda nel mio mestiere.
Sogni nel cassetto?
Mi piacerebbe lavorare con Paolo Virzì o Gabriele Salvatores. Sognando in grande, anche con Wim Wenders, tra i miei registi internazionali preferiti.
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