SIRACUSA – Habitué di Siracusa, dove ha recentemente diretto la tragedia La pace di Aristofane nello storico Teatro Greco, Daniele Salvo partecipa al 15mo Ortigia Film Festival, per presentare il suo film Gli Altri, tratto dall’omonimo romanzo di Michele Prisco.
Protagonista è la grande attrice Ida Di Benedetto, nei panni di Amelia, una donna che vive sola nel cuore di una città del sud degli anni Cinquanta. Uno sconosciuto (Lorenzo Parrotto) irrompe nella sua casa e le dice che un altro uomo, Felice, invoca il suo nome sul letto di morte. Pur non conoscendo nessuno dei due, in Amelia scatta qualcosa di misterioso che la spinge a seguire contro ogni ragione lo sconosciuto, e le tracce di una storia sempre più incredibile.
Daniele Salvo, come ha scoperto il romanzo di Prisco?
Il romanzo è stata una proposta di Ida Di Benedetto, per me è stata una grande scoperta, perché conoscevo Prisco, ma avevo letto altre cose. Ho veramente intravisto un grande romanzo e una grande potenzialità visiva. Ho cercato di rispettare molto il romanzo.
Cosa l’ha spinto ad accettare questa proposta?
Perché io sono molto per un cinema di poesia, che parli allo spettatore a un livello interiore. Sono ancora fermo a Tarkovkij e Bergman, quel cinema dei grandi maestri che adesso è anche un po’ demodé. In questo romanzo ho intravisto un’attenzione certosina alla realtà. Un’attenzione all’interiorità dei personaggi da lente d’ingrandimento, con una pazienza incredibile.
Come è stato dirigere un’attrice così importante e con così tanta esperienza come Ida Di Benedetto?
È stato principalmente un incontro tra generazioni. Come mi è già capitato in teatro con Albertazzi, Ugo Pagliai, la cosa bella è proprio questa: che il nostro lavoro ti dà l’occasione di incontrare persone che hanno una tale esperienza, una tale sapienza. Perché Ida ha fatto tanto cinema ma anche tanto teatro, è ha un dominio dello sguardo, della mimica facciale, della parola. È ancora qualcuno che illumina la parola e non fa quello che ora è tanto di moda, cioè quello di buttare via il testo, di lavorare sul quotidiano. Qui mi rifaccio a quello che diceva Luca Ronconi: il quotidiano è una convenzione.
Come ha riportato questa direzione degli attori, nei confronti del resto del cast, da Lorenzo Parrotto a Beppe Servillo?
Abbiamo fatto un lavoro a tavolino, di analisi delle battute legato poi al lavoro sul volto, sugli sguardi e, anche soprattutto, sugli stati emotivi. Con tutti questi attori che vengono dal teatro abbiamo cercato di temperare questa cosa, adattandosi alla macchina da presa. Mi è stato molto utile Fabio Zamarion, grande direttore della fotografia, che ha lavorato tanto con Tornatore. La squadra tecnica ha lavorato all’unisono.
Uno degli aspetti più interessanti della trama è che la protagonista viene buttata nella vicenda per una coincidenza, senza sceglierlo, e poi si trasforma in una vera e propria investigatrice.
Il focus è l’illusone dell’identità. Noi ci illudiamo di essere qualcosa o qualcuno, viviamo nella società dell’ego. Questo testo ha questo concetto interessante, che il nostro destino è legato a un nome. E mi viene in mente Il caso di Kieślowski, il famoso film che è pre Sliding Doors, per cui basta davvero un dettaglio per cambiare le nostre vite. Questo è appassionante, perché diventa tutta un’indagine, un’inchiesta, in cui lo spettatore deve sempre essere tenuto sul filo.
Da dove viene l’omaggio finale a Bernardo Bertolucci?
Ne abbiamo parlato con Ida, che ha conosciuto Bertolucci. Io non ho avuto questa fortuna, ma ho amato tutti i suoi film, un punto di riferimento per la sua capacità di girare all’americana, con questa tecnica straordinaria. E poi c’è un altro motivo: Ida questa sceneggiatura l’aveva proposta a lui. Lui era entusiasta ne avevano parlato molto, ma purtroppo non stava più bene. Quando me lo ha detto mi sono tremate le gambe.
Metti piede a Berlino e ti scopri a pensare che qui la storia ha lasciato profonde cicatrici sul volto della città. Ferite rimarginate eppure che non smettono mai di evocare....
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