BERLINO – Il cibo, con la sua capacità seduttiva, la bellezza dei colori e delle forme, gli aromi fragranti che quasi attraversano lo schermo per arrivare dritti all’immaginazione dello spettatore, fa parte a pieno titolo della storia del cinema, da Mangiare bere uomo donna di Ang Lee al recente La Passion de Dodin Bouffant di Tran Anh Hung. Ora il maestro mauritano Abderrahmane Sissako dedica un vero e proprio poema ai profumi intensi del tè, facendo della coltivazione e della preparazione della bevanda una metafora della felicità amorosa e anzi esistenziale, dove tutti i tasselli trovano il giusto posto.
Con Black Tea, in concorso a Berlino 74, il regista di Timbuktu affronta il tema del melting pot tra Asia e Africa da un punto di vista tutt’altro che politico, anche se proprio da una presa di posizione politica si parte. Quella del rifiuto delle convenzioni come strada maestra verso la completezza, propria e altrui. Alla tradizionale domanda di rito – vuoi tu prendere come tuo sposo? – la protagonista Aya (Nina Mélo) dice un “no” che può sembrare assurdo, tanto che i presenti commentano che è colpa dell’emozione. Ma poco dopo la vediamo cambiare davvero completamente scenario, dalla Costa d’Avorio si è trasferita ora a Guangzhou dove dagli anni ’90 c’è una grande comunità africana (in effetti il film è girato a Taiwan). Rifiutando di sposare un uomo che non la amava e che la tradiva, Aya crea la sua vita “ideale”, quasi un sogno ad occhi aperti che ci viene offerto come utopia di convivenza. Tutti sono gentili e pronti a prendersi cura l’uno dell’altro, in questo universo parallelo. Aya lavora in un negozio che vende i migliori tè cinesi a esportatori di varia provenienza, il suo lavoro la porta a stretto contatto con il proprietario Cai (Han Chang), un uomo dolce e gentile che nasconde un passato matrimoniale e personale doloroso e irrisolto. Lui la inizia alla cerimonia del tè creando un gioco sentimentale ed erotico che coinvolge sempre di più la giovane donna. Il film, un po’ estetizzante, insiste molto sui gesti e sulle architetture visive, con scelte cromatiche che passano dal verde intenso delle coltivazioni di tè a terrazzamenti al rosso degli abiti sgargianti della protagonista, che potrebbe aver colpito la presidente della giuria Lupita Nyong’o.
“Volevo mostrare un volto dell’Africa che non si vede spesso, quello di un paese da cui le persone migrano non necessariamente per motivi economici. Non è più tutto eurocentrico, ci sono due giganti ormai: la Cina da un lato e l’Africa dall’altro, ma soprattutto volevo parlare di donne, non solo di donne africane, ma di donne nella loro ricerca di libertà”, spiega Sissako. “Per me l’immigrazione – aggiunge il regista – non è una questione di geografia, ma piuttosto di cosa provi prima di lasciare un posto. Questa è la vera immigrazione ovvero il sogno di fare qualcosa: essere liberi di sognare”. Un punto di vista curiosamente prossimo a quello di Matteo Garrone per Io capitano.
Nato in Mauritania, cresciuto nel Mali, emigrato in Unione Sovietica per studiare alla scuola di cinema di Mosca, per poi stabilirsi in Francia, il 63enne Sissako è oggi tornato a vivere e lavorare in Africa.
Black Tea verrà distribuito in Italia da Academy Two.
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