In un affollato cinema Rouge et Noir, la sala di qualità di Palermo che ha appena vinto il Biglietto d’oro 2023 (è risultata la sala con il maggior pubblico in Italia), proprio accanto al Teatro Massimo che inaugurava la stagione lirica, i palermitani hanno salutato con calore e affetto il ritorno de L’isola, il film di Costanza Quatriglio restaurato da Cinecittà a vent’anni dalla premiere al Festival di Cannes, nella Quinzaine des Réalisateurs. La serata, introdotta dal giornalista e scrittore Gian Mauro Costa, è stata aperta da una conversazione sul film tra chi scrive e la regista per raccontare la genesi di un’opera prima accolta all’epoca, nel 2003, con entusiasmo dalla critica, specie da quella internazionale e che segnava un momento di trasformazione per il cinema italiano alla svolta del nuovo millennio. Basti pensare che i Cahiers du Cinéma, di fatto la più prestigiosa rivista di cinema mondiale, lanciarono un parallelo con Stromboli terra di Dio di Rossellini.
L’isola, vent’anni dopo, è un film ancora assolutamente contemporaneo, un coming of age con uno sguardo libero, fortemente radicato in un territorio, l’isola di Favignana, dove la regista palermitana, allora trentenne, aveva trascorso le estati della sua infanzia e dove si era calata in un attento lavoro antropologico, figlio della sua solida esperienza di documentarista, realizzando poi un’opera di finzione ma con la maggior parte del cast formato da non professionisti, i veri pescatori e tonnaroti, i due ragazzini protagonisti Veronica Guarrasi e Ignazio Ernandes, sorella e fratello colti in un momento di crescita e formazione dell’identità, la nonna, personaggio centrale nel tessuto narrativo corale, e poi due presenze amalgamate perfettamente come Marcello Mazzarella nel ruolo del padre e lo scrittore Erri De Luca in quello di un carcerato, amico dei ragazzi.
L’isola nella versione in 4k restaurata da Cinecittà, e già presentata ad Alice nella città, uscirà in home video il 14 dicembre con Mustang Entertainment con diversi contributi extra tra cui il making of Racconti per L’isola, presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2003.
Costanza, cosa ha rappresentato per te presentare il restauro del film nella tua città, Palermo, dove negli ultimi tempi sei tornata molto a stare e lavorare?
È stato bello e importante sentire l’abbraccio della città. Tutta la vita mi sono opposta quando scrivevano di me ‘la regista siciliana’, dicevo ma come, io che faccio film in persiano, giro il mondo e racconto storie di tutti i tipi… Ma L’isola mi riconnette a questa luce, a questa terra e a questa lingua, vuol dire un ritrovarsi dentro una comunità e tornare alle radici, qualcosa che in questa fase della mia vita e della mia carriera sto vivendo intensamente.
Molti, ieri sera, erano sorpresi della bellezza del film che vedevano per la prima volta.
Vent’anni fa il film venne visto molto all’estero, fu distribuito in venti paesi, amato particolarmente in Francia e presentato in mille festival a partire da Cannes, mentre in Italia uscì all’indomani dell’anteprima al festival, a fine maggio, con sole nove copie, quindi il pubblico italiano lo ha conosciuto poco.
Il film era distribuito dall’Istituto Luce guidato da Luciano Sovena, purtroppo oggi scomparso. Che ricordo hai di lui?
Ho conosciuto Luciano Sovena proprio per L’isola, era con me sul palco a presentare il film alla Quinzaine des Réalisateurs. Ricordo che il Luce puntò molto su quel film, aveva come claim “new energy is coming”, e quella nuova energia era anche la mia. All’epoca avevo trent’anni, ero troppo giovane per rendermene conto, ma stavamo vivendo un momento di passaggio, l’affermarsi di un nuovo sguardo sulla realtà, io come altri cineasti che emersero in quel periodo. Era una fase di transizione della nostra cinematografia e quindi il claim del Luce coglieva nel segno.
L’isola è fortemente calato in una realtà antropologica, e anche linguistica, spiccatamente siciliana, come anche un altro film coevo, Respiro di Emanuele Crialese, ambientato a Lampedusa. Come veniva recepito dai critici e dagli spettatori stranieri quel mondo?
Chi era attento al linguaggio cinematografico ha colto delle cose che magari io, a vent’anni di distanza, rilevo ma che all’epoca ho fatto e basta. Quel film è stato un gesto impetuoso, che però dura nel tempo. Ho iniziato a lavorarci a ventisette anni, l’ho finito a ventinove, a trenta ero al Festival di Cannes.
Rivedendolo ora, a distanza di vent’anni e con la maturità che hai acquistato in un percorso molto coerente, in cui ti sei mossa sempre tra cinema del reale e narrativo, senza rigide distinzioni tra documentario e finzione, che del resto hanno poco senso, cosa scopri del tuo lavoro? Qualcosa che magari all’epoca non avevi razionalizzato?
Il modo in cui gli interpreti non professionisti costruiscono un mondo assolutamente naturale nella compenetrazione con l’ambiente, un certo modo di percepire le scene, l’orchestrazione, la regia, il modo in cui le piccole storie si intrecciano. Tra il cinema che chiede un grande plot e il cinema che si basa sui piccoli passaggi della trama scelsi questo secondo raccontando momenti quotidiani, illusioni, sogni, scoperte, amori e relazioni quotidiane. Era una trama fatta di tante trame. All’epoca sentivo la mancanza di un grande plot come un difetto, oggi ne colgo il valore e sono più consapevole. Quando sei molto giovane hai bisogno di sentire il calore, l’incoraggiamento.
È quello che fai oggi come direttrice artistica del Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo.
Credo sia quasi un diritto dei giovani dotati di talento e di sguardo avere quel sostegno. Oggi metto a frutto la mia esperienza e concepisco la direzione artistica del CSC come un’occasione perenne per incoraggiare i ragazzi e le ragazze a sentirsi legittimati ad avere uno sguardo, una voce. Io mi sono messa subito corpo a corpo con la realtà, oggi tanti giovani hanno resistenze e timidezze, per questo a scuola li incoraggiamo a buttarsi.
Tornando al film, devo dire che non lo trovo minimalista. È un film anche con grandi scene di massa, come quella della mattanza, e inoltre molto materico: l’acqua, il sangue, il tufo ne sono le componenti primarie.
Se lo raccontiamo dal punto di vista degli elementi, della vita, della natura, in effetti non è minimalista. La nonna che prega il nonno morto e insegna alla bambina che il nonno è morto per lei ci indica come gli esseri umani si rapportano al mistero della vita e della morte, si ritrovano all’interno di una comunità dove si riconoscono. I ‘rusasi’, i blocchi di tufo intagliati per tenere le reti in fondo al mare durante la mattanza, restano poi in acqua e il tufo si riconnette piano piano con la terra. Il mare di Favignana è fatto di tufo.
Anche il nonno che giace in fondo al mare si riconnette con la natura. C’è nel film una visione animistica, una religiosità popolare.
Il nonno è una figura mitologica, è la radice di tutto. La preghiera al nonno è una continua connessione di Teresa con lo spirito dell’isola, con la vita dell’isola, con la comunità dell’isola. C’è una religiosità arcaica ma anche eterna, una connessione continua di tutti questi personaggi con il mistero della vita.
Ieri sera era in sala anche Salvatore Petralia, uno dei pescatori del film.
Sì, è un pescatore di Levanzo che era nel film ed è venuto anche a Roma ad Alice nella città. Era molto emozionato in entrambe le occasioni. Veronica Guarrasi, che interpreta Teresa, non è venuta, da poco è diventata mamma di una bimba.
Stai ritrovando il tuo legame con Palermo e la Sicilia che sono in qualche modo presenti anche nel tuo nuovo lavoro.
Sì, si intitola Il cassetto segreto, è un film che mi riconnette moltissimo con le mie radici e la mia isola, ma per ora non posso parlarne.
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