Nel 1988, il dittatore militare cileno Augusto Pinochet, a causa della pressione internazionale, è costretto a indire un referendum allo scopo di rimanere alla guida del paese. Sarà il popolo a decidere se resterà o meno al potere per altri otto anni. L’opposizione non ha speranze, la dittatura possiede il controllo delle comunicazioni e la programmazione televisiva è nelle mani del governo, che tuttavia, sottovalutando la questione, concede un quarto d’ora giornaliero di palinsesto a chi la pensa diversamente. Forse come ‘giustificazione’ per poter poi agire in libertà su altri campi. Ma l’opposizione riesce a convincere un audace pubblicitario, Renè Saavedra, a condurre la campagna per il NO. Con pochi mezzi a disposizione, in un orario notturno a bassa probabilità di ascolti e sotto il controllo costante del dittatore, Saavedra e il suo team concepiscono un ambizioso progetto che porterà i democratici a vincere le elezioni e a liberare il paese dall’oppressione. Lo faranno con il linguaggio moderno e scanzonato degli spot pubblicitari, mutuato dagli Usa degli anni ’80, contrastando il clima di oscurità e violenza e portando la battaglia su un piano che l’avversario si dimostra incapace di gestire, con lo slogan ‘L’allegria sta arrivando’, suscitando anche le forti perplessità di alcuni dei ‘compagni di lotta’.
Una storia vera e forte, quella raccontata da Pablo Larraìn nell’entusiasmante NO – I giorni dell’arcobaleno, che chiude la sua trilogia concettuale sulla dittatura iniziata con Tony Manero nel 2008 e proseguita con Post Mortem nel 2010. Ne parliamo, in occasione dell’uscita (il 9 maggio con Bolero in 30 copie) con Eugenio Garcia, pubblicitario che partecipò alla campagna, affiancato dal giornalista Luca Telese, esperto di storia cilena, Stefano Citati (‘Il Fatto Quotidiano’) e Marco Stancati, docente di pianificazione dei media a ‘La Sapienza’, nonché, anche lui, pubblicitario e giornalista. “Il No – dice Garcia, che condivide il cognome con il protagonista del film Gael Garcia Bernal – è un concetto e non un candidato. Non ha un volto, siamo stati noi a doverci costruire una storia, ed è stata una storia etica. Questa è stata la base per impiantare la democrazia in Cile. Abbiamo dovuto contrastare il sentimento di paura che dominava la nazione. Chi sopportava Pinochet temeva vendetta da parte della sinistra se il dittatore fosse caduto. Per questo abbiamo puntato su una campagna inclusiva”.
Una delle immagini più incisive, presente anche nel film che, per trovare un’ottimale armonia, è stato girato nello stesso formato con cui era stata realizzata la campagna stessa, ovvero il televisivo 4:3, vede un poliziotto picchiare un manifestante, con la scritta in sovrimpressione: ‘Questi uomini sono entrambi cileni, e meritano entrambi di vivere in pace’. “Il golpe – dichiara Telese – è storia del Cile ma riguarda anche l’Italia, tanto che è possibile instaurare un parallelismo tra Salvador Allende e Berlinguer. Lì, la via cilena al socialismo, in Italia, la via italiana al comunismo. E quell’11 settembre segnò tantissimo anche noi”.
Uno dei messaggi del film è che contro l’allegria, si può fare poco. “Potrebbe essere una lezione per Bersani – dice ancora Telese – il nemico non si combatte con la demonizzazione, che ti lega al passato, ma superando il concetto di violenza che è implicito nel conflitto”.
Certo il paragone tra il Cile di quegli anni e l’Italia di oggi è forzato ma, dato che si tira in ballo Bersani, non si può fare a meno di notare come abbiano fallito, nel nostro paese, i tentativi della controparte renziana di rivolgersi alla base con mezzi e linguaggi nuovi e moderni, dai social network alle ospitate in programmi popolari, mal visti dalla sinistra più ‘tradizionalista’.
“Non è un problema di Renzi – risponde Stancati – anche perché la sua non era la campagna ufficiale. Non confondiamo le primarie con le politiche: Bersani ha continuato con il tono delle primarie e continuando a parlare a quelli che erano già convinti. La base chiedeva poche cose e chiare, mentre dall’alto si titubava sul finanziamento pubblico ai partiti. Il senso del film non è che portando l’allegria si ottiene comunque la vittoria, ma che in quel contesto storico si è riusciti a dare coraggio a chi non sarebbe andato a votare. Ed è stato fatto cambiando registro. La deterrenza non funziona. Ad esempio, in una campagna per la sicurezza sul lavoro, il messaggio vincente è ‘la sicurezza è vita’, non ‘la mancata sicurezza è morte’. Sono trucchi da pubblicitari, forse biechi, ma funzionano. In quel momento, in Cile, sembravano poco etici, ma non si è mai perso di vista il fine”.
“Eravamo tutti umanisti – racconta Garcia – Io avevo studiato filosofia, ma nell’università di Pinochet non c’era spazio. Tutti i pubblicitari avevano questa formazione e condividevamo le stesse idee. Non era solo uno spot, o una serie di spot. Era un vero e proprio canale, un palinsesto concentrato in soli 15 minuti, avevamo notizie, varietà, pubblicità”. Qualcosa di simile, come ricorda giustamente Telese, al Quelli della notte di Arbore, straordinario successo televisivo dei nostri anni ’80 nonostante l’orario improbabile.
“Producevamo moltissimo materiale – racconta ancora Garcia – così per la direzione creativa diventava difficile vagliarlo tutto. Ci rendemmo conto immediatamente del successo: le strade si svuotavano perché la gente tornava a casa a guardarci, ne parlava tutto il mondo, ma non cercavamo di mostrare il dittatore nella sua brutalità. Ci siamo inventati un simbolo rassicurante: l’arcobaleno. Per contro, i pubblicitari di Pinochet sbagliarono ogni mossa. Sarebbe stato meglio non fare niente. Dopo quindici anni di dittatura era troppo tardi sia per le rassicurazioni da vecchio nonno con cui il dittatore si mostrò, sia per un rilancio sui temi della paura e della repressione recuperati in extremis. Il popolo ormai aveva superato questa fase”.
Il film ha vinto la Quinzaine des Réalisateurs a Cannes, lo scorso anno.
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