‘Come Le Tartarughe’: un armadio diventa un microcosmo in cui ricomporre le emozioni

L’opera prima di Monica Dugo, anche sceneggiatrice e interprete, è una storia di famiglia e di rinascita personale dopo la frattura del sentimento matrimoniale: a Giffoni sezione Parental Experience


GIFFONIMonica Dugo in scena (per Lisa), Monica Dugo alla sceneggiatura e dietro la macchina da presa, per la sua prima volta e con l’ispirazione di una storia vera.

Come Le Tartarughe, da Venezia – essendo un progetto sviluppato col grant Biennale di Venezia, nell’ambito del programma Biennale College-Cinema – a Giffoni, dove partecipa nella sezione Parental Experience, che chiama in causa proprio la condivisione di visione non solo dei Giffoners ma anche delle famiglie.

Una famiglia borghese, nido all’apparenza perfetta: Daniele (Angelo Libri), Lisa, Sveva (Romana Maggiora Vergano) e Paolo (Edoardo Boschetti) vivono nel centro storico di Roma, quando… l’idillio si spezza e di punto in bianco, un giorno, il marito svuota l’armadio e se ne va.

L’armadio e il suo vuoto sono un luogo, non più lo spazio addetto a custodire abbigliamento e accessori, ma una sorta di casa nella casa, perché lì Lisa si rifugia e nella compattezza del mobile individua lo spazio non solo fisico, quanto emotivo, per provare a elaborare la separazione.

Per Dugo – che ha cominciato il mestiere di regista nel 2015, con il cortometraggio Domani smetto, che vanta una trentina di premi – racconta le sue Tartarughe come “un film partito con un’immagine. Un armadio vuoto. Uno spazio vuoto ridotto, ma gigantesco ai miei occhi. Ho iniziato a pensare se una donna, travolta da un dolore inaspettato, avrebbe potuto ficcarcisi dentro. E ho riso. Ero io la donna travolta dal dolore, e l’idea di ficcarmi dentro un armadio è stata la prima cosa che mi ha fatto ridere. Ho continuato a soffrire, ma pensare al mio armadio e alla possibilità di trovare conforto lì dentro, mi consolava tantissimo e mi faceva sorridere. Mi ha fatto ridere anche pensare a chi mi avrebbe trovato lì dentro, se qualcuno si fosse curato della cosa non soltanto liquidandola come un gesto insensato, e non ho soltanto riso. Il secondo passo del mio film è stato questo. Chi sarebbe venuto a trovarmi, chi avrebbe provato a tirarmi fuori, chi mi avrebbe deriso, chi mi avrebbe rispettato. Le immagini dentro l’armadio si sono subito delineate, usare le ante come occhi, cosa sarebbe filtrato dalle sue fessure, cosa avrei visto da lì dentro, dalle ante socchiuse o aperte. E al contrario cosa avrei mostrato del suo interno, usare le ante come una tenda da aprire a seconda dei momenti. E questa è la parte ‘surreale’ del mio film, con riprese non classiche, con un armadio costruito ad arte, con pareti mobili, così da inquadrare la protagonista tra i vestiti appesi: dall’alto, da dietro, di lato”.

Quello stesso spazio, l’armadio appunto, visto da un altro punto di vista, quella della sedicenne Sveva, ha le caratteristiche di una prigione, quantomeno di una gabbia, da cui lei con tutte le sue forze vuole estrarre la mamma, è inquietata e indispettita di questo suo atteggiamento, parallelamente non comprendendo l’assenza del papà.

“Da quando Lisa ci entra dentro, il suo interno sarà buio, con raggi di luce che filtrano a fatica dalle fessure fino a quando Lisa decide di nascondersi, per poi illuminarsi quando Lisa decide di mostrarsi”, continua l’autrice.

“Attorno all’armadio, la casa, e una storia da raccontare in maniera quanto più classica possibile, seppur in una unità di luogo. Ho passato in rassegna molti film ambientati in una casa, e l’impianto teatrale è inevitabile. Oltre che legato alla mia esperienza di ballerina prima, e di attrice dopo. Ma impianto teatrale nel senso di studio e prove pianificate, nulla lasciato all’improvvisazione, seppur con lo scopo che quello sembri. Ogni entrata e uscita da ogni stanza, ogni incastro di personaggi e luoghi è come una coreografia, con un ritmo dettato da dialoghi incalzanti, con la contrapposizione e le pause dettate da silenzi e indugi di ripresa sui silenzi, tanti. I mobili, gli oggetti, gli sguardi sui mobili e sugli oggetti fanno da contraltare alla danza dei personaggi”.

Senza lieto fine nella visione romantica alla “…e vissero felici e contenti”, Daniele non tornerà a casa, ma – come per una tartaruga – quell’armadio sarà servito a creare un guscio abbastanza protettivo tanto da poter rimettere la testa nel mondo, da affrontare magari col passo lento ma perenne di una coriacea testuggine, così la donna, “curata” dall’amore dei suoi figli e conquistata una propria autonomia emotiva salda, compie il passo per scavallare del dolore.

“Non vorrei indugiare mai troppo sul dolore, sul dramma. Farlo sentire e percepire, grande, profondo, ma levare lo sguardo da esso un attimo prima piuttosto che un attimo dopo. Il mio obiettivo è riuscire a far sorridere, ma con un buco in petto”, continua Dugo riferendosi alla sua Lisa e alla sua storia; lei desidera “spiarla mentre nasconde il suo stato d’animo senza colore, attraverso camicette colorate, con colori netti, che la identificano anche quando è fuori dall’armadio. Con la costumista, i pensieri sono che nonostante il non colore di Lisa, ogni suo vestito sia di un colore preciso, anche il pigiama di cui per gran parte del film vediamo solo le maniche, deve avere un colore netto, così come tutti i personaggi, ognuno associato a un colore, o alle sue gradazioni, senza mai perdere il realismo. E immagino anche l’interno dell’armadio, ragionamento fatto insieme allo scenografo, legno grezzo tappezzato in parte, a un certo punto del film, con carta da parati, armadio capiente e confortevole, ignaro della sua funzione traghettatrice. E ancora la possibilità di soffermarsi su rumori, cigolii, tocchi all’armadio come si potrebbe toccare una persona. Le righe del legno, le piccole macchie, la sua tessitura”.

Così “l’armadio diventa un personaggio, e con il direttore della fotografia diamo a una cosa inanimata un’anima con la luce. Una luce di taglio, che non appiattisca, ma che renda visibili i contrasti, con la maggiore semplicità possibile. L’armadio vive come parte integrante della famiglia, assiste e accoglie, si illumina e si spegne, all’interno e all’esterno, una volta finita la sua missione può anche morire. Ogni anta che si apre manifesta il personaggio a cui appartiene, con i colori tipici di quel personaggio.

Come Le tartarughe “ha un impianto teatrale, anche con scene lunghe con pochi tagli, non deve mai far venire meno, nella mia idea, alla naturalezza della recitazione e dei movimenti degli attori. In altre parole, cerchiamo di mettere a fuoco uno stile che dia valore alla composizione dell’inquadratura, in cui non ci sia troppo spazio per la ripresa improvvisata. La casa che è stata individuata come location, è accogliente, con pareti grigie, luci moderne, librerie di alluminio, tavoli di ferro, e colori caldi di divani, cuscini e poltrone. Un uso del tono pastello in accessori, coperte, cuscini, dà alla storia una connotazione da favola, per alleggerire la situazione drammatica in cui si trova la famiglia. La luce immaginata insieme al direttore della fotografia è una luce naturale, una casa ben illuminata dalle sue lampade, luci che saranno meno accese quando Sveva e Paolo rimangono ‘da soli’, o al contrario luci che rimangono accese tutta la notte nonostante non ci sia nessuno nella stanza. È primavera, filtra il sole di giorno, e gli esterni hanno un cielo azzurro e terso, l’arancione del campo da tennis e i tetti di Roma, ed è un contrasto alla freddezza in cui si trova la famiglia. Mi piace alternare immagini degli attori con immagini di cose materiali, soprammobili, la porta dell’armadio che diventa un confessionale, mi piace immaginare di poter indugiare anche su un quadro e su una zanzara dentro l’armadio. Le scene in esterno sono quadrate, e le camminate in strada sono delle panoramiche o camera a mano che accompagna gli attori. La camera a mano è usata anche in casa, per seguire i personaggi in movimento in corridoio o da una stanza all’altra, invece immagini ferme e quadrate nelle camere. Le inquadrature ‘teatrali’ sono alternate a primi piani stretti in momenti particolari, scambi confidenziali, sguardi. Dal punto di vista visivo il film avrà un approccio realista al racconto, anche nei momenti più surreali. In ogni caso, come sempre, la prima (e unica) regola che mi do è fare le cose molto seriamente, ma senza prendersi mai troppo sul serio”.

Nel cast anche Sandra Collodel, nel ruolo di nonna Franca; Francesco Gheghi, Annalisa Insardà e Martina Brusco.

Il film esce il 27 agosto con Cloud 9 Film.

di Nicole Bianchi

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26 Luglio 2023

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