CINEMA & MARKETING #1


Regista cresciuto nella pubblicità, ha spesso sotto gli occhi i meccanismi con cui la “vera” industria si occupa del lancio di un prodotto. Inevitabile quindi fare confronti con il cinema. Alessandro D’Alatri non conosce mezzi termini. E il tema del marketing applicato al grande schermo lo trova in vena di dichiarazioni esplicite.
“Il cinema italiano”, ci dice, “vive o sui prodotti autoriali o sugli esordienti. Il cinema d’intrattenimento ormai costa troppo.

In che senso?
Esiste un meccanismo, la vendita dei diritti d’antenna, il mercato homevideo, etc., che copre già alcune operazioni dai rischi del mercato. Una logica che ha impigrito ogni dinamica industriale.

Stai parlando di ritorno tra costi di produzione e quelli di vendita?
Non solo. Faccio un esempio. Un film italiano costa circa 3 o 4 miliardi. Il budget di uno spot parte dai 300 milioni fino ad arrivare a un massimo che non pone limiti alla provvidenza. Questo perché dietro alla pubblicità ci sono società che investono 50, 60 miliardi. Sono questi ormai i numeri che determinano la penetrazione di un prodotto nel mercato.

Questo garantisce anche qualità?
Sicuramente significa investimenti seri per l’industria dell’intrattenimento. Sono reduce dalla visione di Traffic. Un film che tocca un tema forte come quello della droga, ma è giocato come un action movie ad alto livello. Ha un cast eccellente e ti tiene incollato allo schermo. Dove sono in Italia prodotti industriali altrettanto competitivi?

I parametri dello showbiz vengono stabiliti da Hollywood?
Non solo. Perché un film come Billy Elliot è altrettanto prepotente. Hanno investito per esempio molto sulla scrittura. Il nostro cinema se lo sogna. Molti sceneggiatori hanno infatti tentato la strada della regia, per tentare di gratificarsi di più. E a ragione. Peccato che però poi tutto si traduca in una guerra tra poveri. E la tentazione della scrittura facile, quella seriale della tv, contamina anche il cinema. Ultimamente in America puntano molto anche sull’acquisto dei best seller. Un investimento concreto che nessun gruppo industriale italiano sembra in grado di fare. Eppure è lì, davanti agli occhi di tutti.

Anche l’idea di partenza fa parte della strategia di marketing?
La storia del cinema italiano ci insegna che produzioni come quelle degli “spaghetti western” facevano il giro del mondo e grazie al loro successo commerciale si realizzavano i film di denuncia, i vari Pasolini e altro. Oggi ci limitiamo alle commedie, ridotte a battute, che non sono neanche esportabili.

Puoi fare esempi concreti?
Gli ultimi successi internazionali il nostro cinema li deve a precise operazioni commerciali. Guarda per esempio gli Oscar. Quanti biglietti aveva venduto in Italia Cinema paradiso? O La vita è bella: la Miramax, con mirate operazioni di marketing, ha prodotto la statuetta. Lo stesso vale per Mediterraneo e per Il postino. Che, non dimentichiamo, era stato rifiutato a Cannes. Mi chiedo perché tutto questo risulti chiarissimo a chi produce e vende scarpe, mentre il cinema non ha né testa né orecchie. Forse perché certi investimenti includono dei rischi. E non tutti sono in grado di accollarseli.

Insomma, come sempre, è questione di soldi?

Gli investimenti sono troppo bassi rispetto anche alla fama che il nostro cinema gode nel mondo. E, come in tutte le industrie, le materie prime contano. E costano. Credi, forse, che non mi farebbe piacere collaborare con uno sceneggiatore americano? Peccato che solo lui costa 500mila dollari. E sto parlando del minimo!

Un costo non adeguato al rischio che in genere si accollano i produttori?
Esatto. Ma per fare prodotti di qualità bisogna promuovere anche l’acquisto di talenti.

Sembra il classico serpente che si morde la coda.
E’ necessario invertire una tendenza. Ricostruire il meccanismo di autoreferenzialità della star, oggi, distrutto dalla tv. Manca poi un clima generale di attenzione dei media. Utile anche a sanare il disamore del pubblico. Tutto questo significa comprendere una seria politica d’investimento industriale.

Il clima forma la squadra? O viceversa?
Uno si sente parte di una squadra se condivide un marchio. Se indossiamo la stessa maglia, tanto per usare una metafora sportiva. E poi è necessario cambiare lo status di una cinematografia che vive quasi di sola burocrazia. Tra Rai, Mediaset e fondo di garanzia. Quando mai le anticamere e gli uffici dei burocrati hanno prodotto arte? Meglio i pescecani allora. Almeno sono affamati di soldi. E più soldi si investono al cinema più ne restituisce.

autore
14 Marzo 2001

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