Cinema e calcio all’italiana: una relazione ostinata

In occasione dell'uscita di 'U.S. Palmese' dei Manetti Bros., ecco i migliori film che raccontano la vita dentro e fuori il campo da calcio


Il cinema italiano e il calcio si sono sempre corteggiati con passione discreta, instaurando un rapporto fatto di rimandi, seduzioni e contrasti. Tuttavia, questa relazione non ha ancora prodotto un film “definitivo” che riesca a fissare nell’immaginario collettivo nazionale il calcio con la stessa forza emblematica con cui sport come il football americano, il basket o il pugilato sono stati immortalati nel cinema statunitense, per esempio.

Nonostante questo, il grande schermo italiano ha saputo trasformare il campo da gioco in uno scenario suggestivo, insistendo ostinatamente a raccontare il calcio, forse più per testardaggine romantica che per reale efficacia narrativa.

Il rapporto tra calcio e cinema, infatti, appare come una storia di ostinazione: sembra evidente che non abbia mai funzionato pienamente, che probabilmente non funzionerà mai come per altri sport. I motivi sono svariati: una partita di calcio è un evento troppo dinamico e imprevedibile per essere facilmente sceneggiato; la molteplicità degli eventi simultanei sul campo sfugge alla logica lineare del cinema; inoltre, l’intensità emotiva autentica di una partita si perde inevitabilmente nella riproduzione artificiale delle riprese cinematografiche. Eppure questa insistenza continua a generare momenti di poesia, ironia ed eleganza capaci di evocare sogni, aspirazioni e conflitti profondi della società.

Questa relazione continua con U.S. Palmese dei Manetti Bros., dal 20 marzo nelle nostre sale,  un film che esplora una nuova frontiera narrativa: quella dell’integrazione sociale e culturale attraverso lo sport. In questo caso, il calcio diventa il quadro narrativo per affrontare un discorso più ampio e articolato sul Sud Italia e sulla sua profonda voglia di riscatto. La storia di Etienne Morville, giovane promessa calcistica proveniente dalle periferie parigine, che trova riscatto e un nuovo senso di appartenenza in una piccola squadra calabrese, racconta non solo la possibilità di un riscatto personale, ma anche quello di un’intera comunità desiderosa di emergere e superare vecchi stereotipi e pregiudizi. Un racconto potente che si inserisce nel solco di una tradizione cinematografica capace di trasformare il calcio in una metafora universale.

Pallone d’autore

Uno dei momenti più riusciti e profondi del connubio cinema italiano e cinema è certamente il film di Pupi Avati: Ultimo minuto (1987), che ci porta dietro le quinte del calcio italiano con la storia intensa e umanissima di Walter Ferroni, interpretato magistralmente da Ugo Tognazzi. Ferroni è il direttore sportivo di una squadra provinciale alle prese con debiti, crisi societarie e conflitti interni. Il calcio, nella visione di Avati, perde ogni patina di semplice intrattenimento e diventa una metafora esistenziale precisa e tagliente: il campo da gioco non è più solo luogo di competizione, ma uno specchio implacabile della vita stessa, in cui gioie fugaci e delusioni amare si alternano con una crudezza quasi spietata. È un film che coglie con lucidità il senso profondo di come le vittorie e le sconfitte, dentro e fuori dal campo, segnino indelebilmente le esistenze dei protagonisti, rendendolo forse uno degli sguardi più autentici mai offerti dal cinema italiano sul mondo del calcio.

Nello stesso solco nel 2023 Neri Marcorè ha diretto e interpretato Zamora, una pellicola delicata e ironica che racconta la storia di Walter Vismara, un ex lavoratore costretto a reinventarsi dopo aver perso il proprio impiego. Catapultato nel ruolo di portiere durante le accese partite aziendali degli anni ’60, Vismara scopre nel calcio non soltanto un passatempo, ma un vero e proprio specchio per ritrovare la propria identità e dignità. Marcorè costruisce il racconto attorno a una figura comune, quasi invisibile nella società del tempo, utilizzando il pallone per far emergere temi universali come il riscatto sociale, l’autostima e la forza di rimettersi in gioco di fronte alle difficoltà della vita.

Anche il cinema di Paolo Sorrentino ha puntato i suoi obiettivi nei campi di calcio con L’uomo in più (2001), la storia parallela di un cantante e di un calciatore, entrambi vittime di un destino avverso. La carriera del calciatore Antonio Pisapia viene infatti spezzata da un grave infortunio che ne interrompe brutalmente l’ascesa, gettandolo in un vortice di solitudine e disillusione. Il calcio, nelle mani di Sorrentino, diventa una parabola esistenziale sulla fama e sulla fragilità umana, in cui il successo effimero e la caduta dolorosa sono le due facce della stessa medaglia. Il film evidenzia come, spesso, la partita più importante si giochi lontano dal campo, in luoghi nascosti, lontani dai riflettori e dai cori degli stadi, nella solitudine di una stanza o nella quiete opprimente del silenzio.

Il calcio è una cosa “seria”

Negli anni ’80, la commedia ha offerto un’altra prospettiva sul calcio italiano con L’allenatore nel pallone (1984) di Sergio Martino. In questo caso il calcio diventa satira pura, sferzante e disincatata carrellata sullo sport nazionale con i suoi tic, le sue cialtronaggini e le sue piccole o grandi meschinità: Oronzo Canà, interpretato da un irresistibile Lino Banfi, è il prototipo dell’allenatore tragicomico, coinvolto in assurdi giochi di potere e mercato, una rappresentazione ironica e pungente dell’Italia del pallone. Simile per spirito è Il presidente del Borgorosso Football Club (1970), in cui Alberto Sordi, presidente improvvisato e appassionato di una squadra di provincia, dà vita a una satira altrettanto pungente e divertente, mettendo in luce con garbata ironia gli eccessi, le illusioni e l’entusiasmo ingenuo del calcio dilettantistico italiano.

Interessante  è anche il film a episodi 4-4-2 – Il gioco più bello del mondo (2006), prodotto da Paolo Virzì. Attraverso storie diverse, come quella del giovane talento napoletano che vede nel calcio una via di fuga da un futuro incerto o quella del terzo portiere di provincia che lotta per ottenere un’unica occasione, il film  propone il calcio non solo come passione personale, ma anche come fenomeno culturale condiviso che scandisce la quotidianità, alimentando speranze e delusioni, tracciando storie individuali che si intrecciano con il destino collettivo di una comunità.

Arbitri e campioni

Un altro film che utilizza il calcio per narrare con originalità e ironia è L’arbitro (2013) di Paolo Zucca, che racconta il mondo del calcio dilettantistico in Sardegna, con tutte le sue rivalità, passioni e assurdità. Attraverso una comicità brillante e grottesca, il film riesce a mettere in scena una satira pungente sul calcio come metafora della vita e delle sue ingiustizie, sfruttando l’arbitro come figura simbolica di giustizia e fallibilità umana.

Simile per intenzioni, ma più drammatico e introspettivo, è Il Campione (2019) di Leonardo D’Agostini, che esplora la vita di un giovane calciatore prodigio, Christian Ferro, alle prese con la fama precoce e la pressione del successo. Il film, con autenticità e sensibilità, affronta il lato oscuro del calcio professionistico, evidenziando come la celebrità e le aspettative possano diventare una gabbia soffocante, ponendo l’accento sull’importanza delle relazioni umane e della crescita personale oltre il campo.

Spesso il documentario riesce dove il film fallisce, raccontando l’epopea calcistica attraverso la forza della realtà e la testimonianza diretta degli eventi. È il caso di Zemanlandia (2009), che documenta in maniera vivida e autentica l’epopea del Foggia di Zdeněk Zeman negli anni ’90. Qui il calcio diventa arte, rivoluzione, una sfida continua alle regole convenzionali del gioco. Il documentario mostra come il calcio possa trasformarsi in un potente fenomeno culturale, capace di unire, entusiasmare e dividere, sempre lasciando un segno profondo nell’immaginario collettivo.

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16 Marzo 2025

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