Su Disney+ le sei puntate di Becoming Karl Lagerfeld, la serie prodotta da Gaumont e Jour Premier, sfoggiano un cast internazionale di tutto rispetto, in cui figura anche l’italiana Carmen Giardina (ma un giornale straniero l’ha definita “attrice italo-americana”) nel ruolo colorato ed estremo della Papessa di Vogue Italia, la giornalista e socialite Anna Piaggi (1931-2012). Alcune scene che lasciano il segno, per lo più momenti mondani, come il matrimonio di Paloma Picasso, ma anche una conversazione telefonica “riservata”. Scambi con Karl Lagerfeld interpretato da Daniel Brühl e con il giovane compagno Jacques de Bascher (Théodore Pellerin) in cui Carmen, attrice di solida formazione teatrale allo Stabile di Genova ma molto attiva anche al cinema (un titolo per tutti, Il contagio di Botrugno e Coluccini) e oggi apprezzata regista di documentari, lascia il segno. Cinecittà News l’ha intervistata.
Anna Piaggi era un personaggio straordinario. Sempre sopra le righe, estremamente creativa nel mescolare alta moda e vintage facendo di se stessa una sorta di scultura vivente. Cosa pensi di lei e come l’avete costruita con la costumista?
Anna Piaggi mi ha affascinato subito, era una vera visionaria della moda, non indossava semplicemente degli abiti, ma ogni giorno faceva di se stessa un’opera d’arte che aveva sempre un tema preciso, nulla era casuale. Una vera opera concettuale. Cercava pezzi unici nei mercatini, nelle sartorie teatrali e li univa a capi firmati, e la costumista Pascaline Chavanne ha fatto la stessa cosa: abiti degli anni ’20 indossati con stivali anni ’80, borsette d’epoca, bastoni da passeggio, cappelli con veletta, e poi acconciature con ciocche di tutti i colori, ogni giorno provavamo decine di abbinamenti fino a creare dei look unici, sempre con copricapo folli, che la Piaggi adorava. Si faceva fare i cappellini dal cappellaio della regina d’Inghilterra, ma i suoi erano delle vere follie, esposte persino in una mostra a Londra l’anno scorso. Era amica di Vivienne Westwood, la stilista inglese che creò i look dei Sex Pistols, e in fondo anche Anna era un po’ punk.
Per te che hai diretto a teatro God Save the Punk! un vero invito a nozze.
Sì. Anna è considerata colei che ha inventato il vintage, che oggi è di gran moda, all’insegna del divertimento e della massima libertà.
Che rapporto hai con la moda? Sei più per il pret-à-porter, l’haute couture o il vintage?
Io sono cresciuta in mezzo agli abiti. Mia madre era una sarta molto brava, a casa mia c’erano armadi pieni di stoffe meravigliose e bottoni preziosi, quindi da bambina anch’io ho voluto imparare un po’ a cucire, e ho anche realizzato dei capi disegnati da me, prima per la Barbie e poi per me stessa. Ma non ho continuato, è un mestiere difficilissimo, richiede moltissima pazienza e precisione, e io di pazienza ne avevo poca. E’ naturale che io ami la moda, quindi, e il vintage mi piace molto. Ho anche una piccola collezione di abiti firmati di varie epoche, scovati ai mercatini.
E che idea ti sei fatta di Karl Lagerfeld?
Di Lagerfeld mi sono fatta l’idea di una personalità molto complessa e sofferente, mi ha colpito il suo essere asessuale, un tema che oggi è diventato di grande attualità.
Oggi ti senti più regista che attrice? Come integri questi due aspetti del tuo lavoro?
Fortunatamente finora riesco a far convivere l’attività di regista con quella di attrice, ora sto ancora presentando in giro per l’Italia il documentario Bellezza, addio, sul poeta Dario Bellezza che è ambientato negli anni ’70, gli stessi anni di Becoming Karl Lagerfeld. Erano anni di grande fermento e creatività, anni in cui l’omosessualità era ancora un tabù, ma nell’ ambiente della moda e dell’arte c’era una maggiore libertà, naturalmente. Dario Bellezza scrive Lettere da Sodoma nel 1977, il primo libro in Italia a parlare di relazioni omosessuali in modo esplicito, senza filtri, e dà il coraggio a molti di venire allo scoperto, anticipando i movimenti di liberazione omosessuale. Un’altra cosa che li accomuna purtroppo è che Jacques, l’amante di Lagerfeld, morì di AIDS, come Bellezza. Una tragica piaga di quegli anni.
Anche con il tuo documentario precedente, Il caso Braibanti, ti sei occupata di un omosessuale perseguitato. In questo senso il tuo percorso è cristallino. Ti batti col tuo lavoro per i diritti LGBTQIA+.
Sì, tra le storie che mi sono trovata ad affrontare, sia come attrice che come regista, diverse volte ho scelto storie di discriminazione di persone omosessuali, o che avessero al centro figure di omosessuali, come Il caso Braibanti, che la Rai ha mandato in onda ad aprile e da poco è approdato su Raiplay. Ho anche portato in scena anni fa una testo di Claire Dowie, bravissima autrice e attrice inglese lesbica molto impegnata sul tema dei diritti.
Hai capito come mai?
C’è in me una sensibilità particolare verso questi temi, che risale agli anni della mia formazione. Provenendo da un’educazione molto rigida, da adolescente ero affascinata da tutto ciò che era “fuori dai ranghi”, e in quegli anni “trasgressione” voleva dire soprattutto ambiguità sessuale. I miei punti di riferimento sono stati Rimbaud, Fassbinder, Virginia Woolf, Pasolini, David Bowie, Lou Reed e molti altri che mi hanno profondamente influenzato. E poi ho scoperto il teatro con Lindsay Kemp e i suoi meravigliosi danzatori-attori en travesti.
A cosa stai lavorando attualmente?
Al momento seguo ancora Bellezza, addio in giro per l’Italia, un documentario a cui tengo molto e che, senza una distribuzione, richiede un grande lavoro per arrivare nelle sale, e ho appena tenuto una master-class sul documentario narrativo all’Università Federico II di Napoli. E poi una notizia in anteprima: dal 29 giugno, il mese del Pride, Bellezza, addio sarà visibile su SKY Arte.
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