LOCARNO – E’ notte a Napoli la prima volta che s’incontra Mimì (Domenico Cuomo), alla guida di un’apecar: momento questo in cui s’intravedono anche per la prima volta le sue scarpe decisamente un po’ ingombranti, e sì, adatte ad abbracciare quei suoi piedi deformi dalla nascita. Se questa è l’entrata in scena del protagonista di Mimì – Il principe delle tenebre, di primato questo film ha in sé anche l’essere il primo lungometraggio di Brando De Sica dietro la macchina da presa che, proprio sin da queste sequenze, tra una panoramica dall’alto e una camera in immersione sott’acqua, mette subito lo spettatore di fronte alla suggestione estetica della visione, mostrando – cosa che poi si conferma nel progredire dello scenario – di avere una consapevolezza del mezzo fuori dell’ordinario.
È orfano Mimì e di mestiere fa il pizzaiolo da Iorio, il locale di Nando (Mimmo Borrelli), che a 12 anni l’ha preso con sé e si fa chiamare “papà”: proprio lì, nella pizzeria che per lui è casa, sempre una notte, s’innesca la prima miccia di questa storia romantica e horror al contempo, perché Mimì viene pestato – e non sarà l’unica volta – da Bastianello, cantante neomelodico e figlio di boss, in questa circostanza in compagnia della sua cricca e di Carmilla (Sara Ciocca), che il piccolo camorrista chiama “Mortisia… Sposa Cadavere”, ma che poi si capirà non essere del clan, quanto piuttosto “posseduta” da qualcosa di più mentale.
È proprio lei, fanciulla dark dal fascino un po’ infantile e un po’ inquietante, a portare Mimì in un universo a lui sconosciuto, quello del conte Dracula: lei, che si racconta figlia di una principessa rumena, che di cognome fa “Vlad”, complice il battito del cuore del primo innamoramento, trova con Mimì una complicità tenera quanto, poi, sacrificale.
Brando, Napoli è sinonimo delle sue radici famigliari: perché ha individuato proprio lì la città giusta per l’ambientazione del film?
Non solo nonno Vittorio era ciociaro ma scelse di essere napoletano, ma anche il mio bisnonno, il papà di Mario Verdone, era di Bacoli, e tutto questo è motivo d’orgoglio: io mi sento molto napoletano, è una città a me vicinissima, che amo e dove ho pensato più volte di trasferirmi a vivere, intanto; e Napoli per la storia l’ho scelta perché nel plot del film c’è una cosa fondamentale: la tomba di Dracula, la tomba dei Ferrillo a Santa Maria la Nova, dove la figlia di Dracula avrebbe richiesto il corpo del padre dopo l’uccisione per mano dei turchi. Essendo, poi, la città per eccellenza del sole e della luce, di contrasto l’ombra è più netta. In più, Napoli è stata una roccaforte degli alchimisti, abbiamo avuto Cagliostro ma anche delle lobby di alchimisti molto importanti, pericolose al tempo, intense. Quindi s’è trattato della magia tra Dracula, la luce, la Napoli Sotterranea, la sua Storia e la sua stratificazione, per cui Napoli è fuori tempo, è gli Anni ’50 come è l’Ottocento, è vampiresca in questo e a me piaceva questa dimensione.
Domenico Cuomo non interpreta Mimì, è Mimì. Com’è ricaduta la scelta su di lui?
Io non potevo desiderare attore migliore, tra l’altro nel suo primo ruolo da protagonista al cinema. Una parte del piccolo budget del film avevo proprio chiesto alla produzione fosse reso disponibile per fare al meglio la parte di casting, che è durata un anno, anche perché nel mezzo della pandemia: ho visto tantissimi video, poi ho voluto incontrare le persone una ad una, dedicare a ciascuno almeno venti minuti, il minimo necessario per capire meglio, anche perché per il ruolo avevo lasciato aperta una fascia di età da 15 a 25 anni. Con Domenico è stato amore al primo incontro, ma poi gli ho fatto mille provini; sia lui che Sara Ciocca sono persone straordinarie, oltre a essere attori che secondo me in futuro vinceranno l’Oscar: sono dei fuoriclasse, sono umanamente tra le pochissime persone meravigliose che ho incontrato nella vita. Mi confortano per il futuro, sono cuori puri, e Domenico mi ha convinto proprio per questo: quel cuore lo vedevo negli occhi, dentro cui gli leggevo candore, purezza, e questo mi ha molto conquistato, io Mimì lo cercavo nello sguardo. E poi lui ha questo fisico, così aristocratico, che sembra davvero un piccolo principe, ma soprattutto è davvero un genio di attore.
C’è anche un personaggio femminile adulto, Giusy, che sembra uscito da un film di Almodóvar: da che suggestioni è nata, come ha avuto l’idea di costruirla così femmina-non femmina ma fortemente materna?
Io avevo immaginato Tutto sia madre e, quindi, questo per me è un complimento bellissimo! Volevo l’umanità delle donne di Almodóvar, cercavo esattamente quella. E anche in lei mi ha colpito anzitutto la dolcezza: in questo film, i personaggi hanno tutti un sogno e lei sogna di diventare mamma di Mimì e di mettersi con Nando, che ha adottato Mimì perché ha perso suo figlio e sua moglie durante il parto – questo fa parte della back story, che non si vede nel film – e quindi ognuno nel mio film ha un sogno e il loro è creare una famiglia; Mimì sarebbe protetto con loro, se scegliesse la strada che gli raccomandano, come fa anche Carmilla a un certo punto. I piedi deformi di Mimì sono un simbolo, la necessità di trovare un equilibrio, se ci si ‘stacca’ dal concreto e la testa va troppo tra le nuvole – così quella di Mimì – ci si perde.
Mimì è una storia che sta in equilibrio tra tenerezza e ferocia: ma, in fondo, lei aveva voglia di raccontare una favola? O altro?
Sì, tra tenerezza e ferocia, come l’adolescenza. Sicuramente è una favola ma non potrei mai cominciare a scrivere un film dicendomi ‘voglio raccontare questo…’, perché altrimenti non arriva mai: è come quando dici ‘voglio fidanzarmi’, e poi non ti fidanzi mai; ecco, quello che puoi fare è avere un’immagine, o una sensazione, che ti colpisce, e lì lasciarti andare e seguirla, come fosse una meditazione con un mantra, poi man mano altre cose confluiscono e costruiscono la storia; alla fine del film, quando lo guardo, solo lì capisco e interpreto; quindi, il farlo, per me, è come una seduta di analisi, in cui solo alla fine riesco a prendere atto di quello che ho fatto, mai a prescindere.
Restando in tema di favole e sogni, c’è una scena di bacio con volo sopra Napoli, che sembra proprio l’omaggio al finale di Miracolo a Milano, in cui Edvige e Totò volano a cavallo di una scopa sul Duomo.
Miracolo a Milano? Davvero? Non ci avevo pensato! In realtà, questa scena del volo, m’era venuta in mente pensando al primo morso di Intervista col vampiro, quando Tom Cruise morde e lì, dalla nave, salgono con un effetto ascensore. Miracolo a Milano è uno dei miei film preferiti di nonno, a cui nel mio ho dedicato volutamente un altro omaggio, la scena del funerale, da L’oro di Napoli, e proprio lì al centro, nella mia scena, c’è un signore anziano, che era il bambino di Pane, Amore e Fantasia, che arrivò sul set portandomi la foto di lui e nonno abbracciati: io l’ho abbracciato, mi sono commosso, e lì per lì gli ho chiesto di entrare nella scena, che appunto era un omaggio a nonno; è arrivato all’improvviso, per strada, e io l’ho messo del gruppo: sono successe tante magie sul set, è successo spesso qualcosa di particolare, e sicuramente nonno mi ha protetto, mi sento di aver potuto fare il film che volevo fare, come lo volevo fare.
Restando ‘in famiglia’ è facile dire chi sia stato il nonno, chi sia suo papà, suo zio Carlo Verdone: espressamente per questo film, sono c’entrati nell’ispirazione, nel confronto, o anche nel voler magari essere altro da loro?
No, anzi: nonno Vittorio amava i film horror e soprattutto mio zio Manuel, e anche papà. Sono cresciuti con la filmografia della Hammer e quando io ero piccolo, con mio cugino Andrea, ci facevamo delle scorpacciate di film horror: fui io il primo, il patito, quindi Manuel e papà – con mamma che s’incazzava – mi hanno fatto guardare a quattro, cinque anni, Dracula il vampiro, L’implacabile Condanna, Frankenstein, tutti i film della Hammer erano i miei cartoni animati; io ero proprio impazzito per Dracula, andavo a scuola vestito da Dracula, ero un piccolo Mimì. È quindi una cosa che mi porto da bambino, dalla famiglia. E poi, a pensarci, rispetto a mio padre o zio Carlo, la cosa più simile a un film comico è un film horror: sono il giorno e la notte e proprio per questo sono come yin e yang, hanno una connessione.
Pensando a suo zio Manuel, penso alla musica e constato che nel suo film ci sia una selezione decisamente sofisticata di almeno quattro canzoni in particolare. Com’è avvenuta la scelta?
Parto dalla traccia finale, Adventures in Your Own Backyard di Patrick Watson: l’ascoltavo mentre scrivevo Mimì e queste ‘avventure’ avevano un suono – tra un bolero, un western alla Morricone e il rock – erano un pastiche di generi, che se dovessi dire che suono sia il mio film, è questo brano. Per Now I’m feeling zombiefied di Alien Sex Fiend, il brano che sentono durante la festa Got – a parte essere una cultura che m’appartiene, perché da piccolo ero Got –, ho cercato più cose in tal senso, e ricercando la musica Got ho riscoperto questo pezzo. La canzone di Ornella Vanoni era nella mia testa mentre scrivevo la scena in cui Bastianello picchia Mimì nel cimitero, non un luogo per un altro, perché mi ricordava un film che ho amato moltissimo, Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, dove dalla radio del suo film, sulla scena di pestaggio della prostituita, esce fuori proprio questo brano di Riz Ortolani. Poi c’è Simple Game dei Four Tops sulla scena del volo, e Catarì di Roberto Murolo, quando loro due si conoscono al porto e fino al polmone d’acciaio. La prima canzone, Un giudice di De André, è stata un regalo del mio montatore, Francesco Galli, una sua idea, perfetta; penso la poetica, la persona, il mondo di De André rappresentino il brano bandiera del film.
Sin dalle prime sequenze costruisce come un architetto l’immagine, c’è sempre una composizione non casuale del quadro. Qual è la sua idea di regia?
Dopo aver scritto il film, mi prendo del tempo con la sceneggiatura e inizio a disegnarlo, scena per scena: compro dei grandi quaderni per pittori e con le matite inizio proprio a raccontare, quindi ho già in mano il montaggio del film, e lì inizio anche a mettere indicazioni di suono, queste visioni su carta a volte mi suggeriscono anche il suono, che talvolta può raccontare qualcosa che non necessariamente devi mettere nell’immagine, ottenendo così di avere gli off screen sound o le atmosfere; capita anche che includa delle foto-reference per la palette colori: nel film s’inizia molto con il verde, che poi va verso il rosso e ancora al blu, sono tutte scelte ponderate e poi sviluppate con scenografia e consumi. Io penso che, come si dice, il film sia come il maiale: ‘non si butta niente’; tu devi usare qualsiasi cosa a disposizione per raccontare il tema, la spina dorsale del film.
Un’altra consapevolezza che esce dal film è una sua conoscenza fine della Storia del Cinema: se può essere più semplice citare Dracula di Coppola, meno scontato è Nosferatu di Murnau.
Una cosa pazzesca, casuale, è che quando abbiamo girato la scena di Nosferatu era il giorno del centenario del film, dell’uscita al cinema del film. Noi siamo nel centenario e si parla molto di un regista che amo, Robert Eggers, che sta rifacendo Nosferatu per questa ricorrenza ma… noi siamo arrivati prima! (ride) Comunque, quel giorno, quando l’ho scoperto, avevo la pelle d’oca, ed ero felicissimo.
Sembra proprio che per questo film ci siano stati dei ‘segni’, quindi anche degli aneddoti a corredo?
Sì, sì. Quello che avevo in mano io, del budget per il film, era sotto il milione di euro: avevo a disposizione una sola camera e sei settimane di tempo per girare; a parte ‘la mia squadra’ – Andrea Arnone, il direttore della fotografia; Francesco Galli, il montatore; e Paolo Amici, per il sound design -, da Roma ero riuscito a portare solo un aiuto regista e una costumista, per il resto erano tutti ragazzi, molti della troupe proprio alla loro prima volta, spesso persone anche arrivavano da situazioni personali complicate, ma mi hanno davvero dato il cuore e io altrettanto le porterò sempre nel mio. Sicuramente sono accadute un’infinità di cose avverse, ma noi siamo stati benedetti da Dio – io sono molto credente, sentivo molto la forza del bene – e poi ho sentito proprio la mano di nonno, un paio di volte ho proprio avvertito la presenza sulla spalla, a dire ‘va tutto bene, vai avanti’, tipo nel finale: c’è stata una tempesta e il giorno dopo le persone sarebbero partite, sembrava non sarei riuscito a girare il finale assoluto; eravamo sopra una montagna, in Campania, aveva nevicato, si stava sciogliendo la neve, io ero con Domenico, che mi rincuorava, e lì ho sentito la mano di mio nonno sulla spalla, in quel momento il mio Mimì mi dice ‘alziamoci, adesso smette’, e davvero, appena usciti, ha smesso, creando tutta la nebbia che poi c’è nel finale, che è tutta vera, e a farla sarebbe costata almeno trentamila euro! Una cosa divina. E così è successo per tante altre cose.
Scusi, davvero ha usato una sola camera?
Sì, come alla vecchia maniera, d’altronde non avevo i soldi per permettermi diversamente. Il film, tra l’altro, per ogni scena ha una location differente, e io giravo 4/5 scene al giorno: fondamentale è stato aver avuto tutto disegnato, come raccontavo prima, anche perché non si sono potute fare prima prove con gli attori, senza contare che il Covid ci ha fermati – e quindi ci ha rubato – una settimana.
E adesso, sta lavorando a qualcos’altro?
Assolutamente sì. Sto parafrasando, e preciso parafrasando, una storia italiana, molto nera, di crimine, realmente accaduta. Sono in fase di scrittura, sempre insieme a Ugo Chiti – come già per Mimì, con anche Irene Pollini Giolai – e a una persona che ha partecipato in attivo a questa storia, una storia delle storie: è una bandiera pesante, importante, scura e paurosa del male italiano, che va oltre il crimine. Noi prendiamo spunto e parafrasiamo per raccontare: non sarebbe possibile raccontarla direttamente e poi la cronaca nera è molto scivolosa, rischiosa nel diventare solo voyeuristica, e così non aggiunge niente; queste storie, allora, è meglio trattarle con i documentari o i saggi, anche perché a è strano fare il casting alle vittime o ai macellai, chi fa chi?; mentre, se vuoi raccontare cosa abbia voluto dire quella storia, se lo dici veramente, è difficile facciano uscire il film; così il mio interesse è, partendo dalla cronaca, accendere intuizioni e fantasie, che permettano di fare film come Matrix o Il Codice Da Vinci: a volte, in questo modo, il cinema dice più verità della verità stessa.
Mimì – Il principe delle tenebre esce “per Halloween”, distribuito da Luce Cinecittà.
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