“Ti porto una bella notizia: i cinesi sono disposti a finanziare e a sostenere il 60% del tuo prossimo film La condizione umana“. Il direttore Marco Müller accoglie così Bernardo Bertolucci che viene accolto da un lungo applauso nella sala delle conferenze del Casinò, in attesa di ricevere il Leone d’oro per il 75mo della Mostra. E’ sofferente il regista, deve aiutarsi con un deambulatore per camminare, ma è disponibile, come sempre, a raccontarsi, a metà tra la lezione e il ricordo. Nessun accenno a che punto sia la sceneggiatura, scritta insieme a Mark Peploe, del film sulla tragica storia d’amore del principe napoletano Gesualdo da Venosa. Per il momento è invece accantonato il progetto di un film tratto dal romanzo “Bel canto” della scrittrice americana Ann Patchett e ispirato a un fatto di cronaca: l’assalto della residenza dell’ambasciatore giapponese a Lima di un commando del Movimento rivoluzionario Tupac Amaru.
Che ne pensa delle polemiche sulla qualità del cinema italiano in concorso?
Non voglio entrare nella discussione “il cinema italiano e i soldi buttati”. Vorrei che come in Francia, un modello luminoso, tante opere prime e seconde fossero aiutate e finanziate, così che i giovani registi possano essere accompagnati nel loro cammino artistico. E’ una costante nel tempo che la Mostra di Venezia non sia facile per il cinema italiano. Quando ho portato i miei film al Lido, sono ripartito spesso con l’amaro in bocca. E poi sento parlare di crisi del cinema italiano da quando venni per la prima volta qui nel 1962 con La commare secca.
Lei fa parte del gruppo dei ‘Centoautori’.
Mi riconosco e non, ma comunque mi sento bene con loro, rappresentano qualcosa di nuovo, spontaneo. Insieme abbiamo iniziato un dialogo, all’Ambra Jovinelli, con il ministro della Cultura, un dialogo importante mentre siamo alle prime battute della nuova legge cinema.
Che effetto le ha fatto rivedere il suo documentario “La via del petrolio” del 1966?
Ieri pomeriggio ero un po’ ansioso prima della proiezione, mi chiedevo se Müller mi avesse preparato un omaggio o un tranello? Forse è da allora che non vedevo questo documentario e mi aspettavo di trovare delle voci stentoree a commento delle immagini, come quelle degli annunciatori dei film Luce. E invece no. Ho avuto invece due belle sorprese. Nella prima parte del documentario, quella iraniana, i segni della mia tentazione all’epicità, che si ritrova in Novecento e L’ultimo imperatore, opere in cui mi sono abbandonato all’idea di realizzare quel cinema epico come non si faceva più.
L’altra sorpresa?
Mi sono accorto di avere girato un documentario in qualche modo dedicato a Enrico Mattei, o come lui stesso avrebbe voluto che fosse realizzato. Non solo sulle energie, ma sui diversi lavoratori impegnati iraniani e emiliani, gli elicotteristi. E ho apprezzato anche il montaggio di Roberto Perpignani, che ha dato un ritmo straordinario a quei materiali così fisici.
In Sala Grande ha assistito anche all’omaggio a Luigi Comencini.
Il suo Bambini in città è stato un bellissimo regalo, mi ha emozionato. Il documentario mostra le ferite della guerra, mentre i bambini, che ci sorridono sopra, sono visti con discrezione e poesia. E poi il commento s’affida a una voce così distaccata, pacata.
Pier Paolo Pasolini e Jean Luc Godard sono i suoi maestri?
Due padri putativi, ma due autori diversissimi e lontanissimi. Con Pasolini ho avuto la mia prima esperienza di aiutoregista in Accattone. Fui il suo assistente, nel senso letterale della parola, cioé guardavo Pasolini che prendeva in mano dei materiali e li faceva diventare cinema. Parlava della pale, della pittura primitiva, di quei santi dipinti che si trasformavano nei primi piani dei magnaccia delle borgate romane.
E Godard?
C’è l’innamoramento per qualcuno che ha cambiato la storia del cinema, come se esistesse un cinema prima di Godard e un cinema dopo Godard. Io l’ho amato, rifiutato, scopiazzato. In quella bella confusione, da cui nasce un’inquadratura, forse c’è la traccia di qualcosa di questo regista. Del resto Godard continua ad affilare la lama del cinema.
Fu lei a premiare Godard nel 1983 con un Leone d’oro?
Gianluigi Rondi, allora direttore della Mostra, mi propose la presidenza della giuria. Non volevo accettare, all’epoca ero incerto se andare in Cina, mi stavo preparando per L’ultimo imperatore. Ricordo che incontrai Godard a Salsomaggiore, gli parlai della proposta ricevuta e della mia intenzione di rifiutare, ma lui suggerì di accettare. Avrebbe portato a Venezia il suo Prénom Carmen. Fu allora che misi in piedi un piccolo episodio di “mafia”. Ho detto sì a Rondi e ho proposto una giuria di soli registi, da Bob Rafelson a Agnès Varda. Erano tutti autori che ovviamente erano debitori del cinema di Godard e perciò non poterono non dargli un premio importante, come il Leone d’oro.
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