Bari, diario di un regista “emigrante”


BARI – Avevo già sperimentato l’effetto “straniante” di un festival vicino casa mia a Roma, ma questa volta è ancora diverso. Un festival sotto casa o meglio, come si dice nella mia lingua, “dietro a casa”, è tutta un’altra cosa.
Treno da Roma, carico carico di cinematografari, con la “star” della serata inaugurale Daniele Vicari, e tanti frequentatori abituali di festival. Ma comincio da Foggia in poi a capire che pochi sanno perché il treno cambia direzione. Io lo so, prendo questo treno da tempo, quando ritorno a Bari, città che lasciai nel 1977 per “fare il cinema”. Ma questa volta ci torno perché a Bari il cinema adesso si fa, in tutte le sue forme, e lo si promuove, con questo festival iniziato tre anni fa, grazie ad un altro “concittadino di ritorno”, quel Felice Laudadio che aprì la diaspora barese.

La prima cosa diversa dal solito è dove sono alloggiato. Il direttore del festival mi ha proposto gli alberghi convenzionati, ma voleva dire un affronto troppo grande verso i miei genitori, e quindi, casa, quella casa che conserva con religiosa attenzione le vestigia di quando ero studente… La famosa “welcome bag” la trovo a casa, quindi, con tutto quello che ci deve essere, piantina della città compresa. Ma quella non mi serve, anzi mi troverò a fare da vigile urbano a cineasti che qui ci capitano per la prima volta.

Altra emozione, è il luogo dell’apertura del Festival. Il teatro Petruzzelli, la cui ricostruzione ho seguito per realizzare un documentario che rischia di subire la maledizione del teatro, rimanendo bloccato da pastoie burocratiche, simili a quelle che ne ritardarono per venti anni la riapertura, dopo l’incendio. Mi ricordo tutto, so dove sono bagni e guardaroba, saprei addirittura come far scendere la piattaforma dell’orchestra o aprire il sipario. Ma non lo faccio…

Il film, Diaz, è forte e coinvolgente, ci riporta a quelle giornate violente e incomprensibili. La platea risponde con un lungo e sentito applauso, c’è gente che va a ringraziare regista e produttore, anche per prendere le distanze dal solito solitario contestatore che al cinema vorrebbe vedere solo tutto il bene del mondo. C’è una donna in lacrime ferma nel corridoio tra le poltrone, in attesa di un abbraccio lungo e affettuoso, la sorella di Procacci, un altro che era partito e torna con il paniere carico di cose belle e importanti.

La prima sera dà, però, l’impronta a quello che succederà nei giorni successivi. Se è vero che (più per un riflesso condizionato) il cinema che vedremo verrà presentato sotto la vetusta dicitura “il cinema italiano è in crisi”, con o senza punto di domanda, dopo diversi giorni di proiezioni sono certo che basta con i luoghi comuni. E poi. La rivoluzione digitale sta cambiando il modo di produrre e di girare, ci sono per esempio colossi internazionali come la Kodak che rischiano la chiusura, ma una professione non risulta essere in crisi, anzi. Il truccatore. Specializzati sempre più in sangue, ferite, ecchimosi, tagli sul naso… sempre più realistici, sempre meno “finti” come Dario Argento usava fare. E sono tagli e botte di gente perseguitata dalla malavita, dalla polizia, immigrati clandestini, clan uno contro l’altro, perfino cavalli ammazzati nelle stalle. Anche loro sono stati sedati e truccati… E così sono felice che la figlia di una mia compagna di scuola del liceo, che ha scelto appunto questo mestiere, possa rivolgersi alla Film Commission e mostrare quello che sa fare, quasi certa che prima o poi farà occhi neri in qualche film barese. Anche questo, nel lontano ’77, non l’avrei mai immaginato!

Sono uno dei tre giurati della giuria delle opere prime, tutti e tre siamo pugliesi, gli altri sono Edoardo Winspeare e Alessandro Piva, e forse non ci siamo mai trovati insieme in Puglia. E anche questo fa specie. Ma riusciamo a spezzare le catene dell’appartenenza. Una mattina in un ristorante accanto al teatro rosso, incontro un vecchio amico, uno dei più importanti registi di lirica italiani, o meglio tunisino/italiano, che scopro ha appena preso casa a Berlino. Denis Krief è a Bari per la regia del Barbiere di Siviglia, lui il teatro lo trova bell’e pronto, e così gli faccio vedere com’era quando i palchi erano buchi neri. Usciamo rinfrancati dal pranzo. Se Atene/Cinema piange, Sparta /Opera di certo non ride!!!!

Non vi darò notizie interne al lavoro di giuria, che però ci vede formulare giudizi abbastanza simili. Saprete della decisione dalla serata ufficiale di premiazione, e allora ci potrete criticare. Ma quello che mi colpisce è il pubblico dei film che vediamo. Le proiezioni sono due al giorno, alle 16 e alle 18. E sono quasi sempre piene. E colorite. Scopro che il pubblico che c’è non è abituato a questa grande multisala che pure ha riempito un vuoto nel centro città. E’ gente – molti sono anziani – che non sa che deve guardare il posto assegnato dal computer sul biglietto, che si siede e poi si deve rialzare. C’è chi risponde al telefono come se niente fosse dicendo: “No, è che sono al cinema Galleria, al festival, due euro, vedi dei film che non escono”…  E’ questa la chiave di lettura. L’evento richiama gente che al cinema non ci andrebbe, il prezzo fa il resto. Ha ragione Laudadio a dire che l’altro adagio che accompagna tutti noi che i festival li frequentiamo e a volte li organizziamo, quello delle “attività permanenti”, quelle che dovrebbero durare tutto l’anno, è una stupidaggine. Togli l’evento e tutto ridiventa noiosamente normale. Però sul costo del biglietto potremmo riaprire il “dibbbbattito” con gli esercenti…
Ci avviamo alla visione dei film che ci rimangono da vedere, la direzione come al solito preme per una decisone in tempi brevi, perché i premi vanno stampati ed i premiati avvisati… Ma noi siamo pierini e vogliamo vedere tutto, o magari anche rivedere dei film, in questo contesto, dove il confronto è più evidente, e le emozioni più omogenee. E poi, come in tutti i festival che si rispettino, aspetteremo la giornata del convegno su: “Il cinema italiano è in crisi”????

autore
28 Marzo 2012

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