“Ho letto le dichiarazioni del vostro premier Silvio Berlusconi sulla superiorità dell’Occidente rispetto all’Islam. Spero si tratti di un refuso tipografico”. Così il 35enne regista iraniano Babak Payami durante l’anteprima romana della sua opera seconda Il voto è segreto, premio a Venezia per la migliore regia, Leone d’oro mancato nonostante l’impegno profuso da Nanni Moretti. Payami solo da tre anni è tornato a vivere a Teheran, dopo che la famiglia aveva lasciato il paese all’inizio degli anni’70 e dopo aver studiato cinema all’Università di Toronto. E subito, nel ’98, si è imposto come regista di respiro internazionale, ottenendo il consenso della critica al Festival di Berlino e a quello di Torino del 2000. Il voto è segreto, una coproduzione italo-iraniana di Fabrica Cinema e Rai Cinema, è interpretato da attori non professionisti e uscirà nelle sale il 27 ottobre prossimo.
E’ ottimista o pessimista sui venti di guerra nel mondo?
Non si parlerà mai in modo sufficientemente approfondito di quanto accaduto a New York, ma non si deve contribuire a questa frenesia di violenza che spero abbia breve vita. Vengono usate terminologie obsolete come “guerra”, “azione militare” per affrontare una difficile situazione sociale e politica. Non ha importanza se vengono usate da americani, iraniani o italiani. Purtroppo sono pessimista perché mi accorgo che il clima di violenza è continuamente alimentato. Certo se guardiamo alla storia passata troviamo che queste fasi di frenesia della violenza talvolta durano a lungo, ma quando terminano la comunità è disponibile di nuovo ad affrontare i problemi da una prospettiva umana.
Qualche giorno fa a Roma il regista bosniaco Danis Tanovic ha dichiarato che l’Afghanistan andrebbe bombardato di pane, alimenti, cd, videocassette. E’ d’accordo?
Sì, certo. Del resto anche una piccola frazione di questi ingenti investimenti militari sfamerebbe migliaia di persone e tutto volgerebbe al meglio.
Il film, per quanto naif, è un atto d’accusa delle condizioni di vita nella sua terra?
Il voto è segreto non è solo una finestra sulla realtà sociale iraniana. Ho voluto puntare il dito su alcune assurdità da cui affrancarsi. Non ho fatto una pellicola sul voto in Iran, ma sulle elezioni in un luogo lontano e indefinito. E ho voluto anche indagare sulle relazioni uomo-donna, come già è avvenuto nel mio primo film Un giorno in più.
Il governo iraniano ha finalmente mostrato attenzione ai diritti delle donne?
E’ una questione delicata quello della condizione e dell’oppressione delle donne nel mio paese e comunque è un tema che interessa in varia misura anche altri paesi. Credo che non si possa non tener conto delle fedi e delle convinzioni religiose. Va sempre trovato un punto d’accordo. Non condivido il comportamento di chi impone i cambiamenti, vorrei che fossero rispettati i tempi delle persone e quel che ciascuno ha dentro di sè. Così come non capisco chi si lascia forzare senza essere assolutamente convinto. Inoltre spesso si drammatizzano quelle che sono le inibizioni esterne sulle donne e si dimenticano quelle interne, frutto di tradizioni e di convenzioni di secoli.
Come è nata l’idea di questa storia un po’ surreale?
L’idea è venuta vedendo il cortometraggio Prove di democrazia di Mohsen Mahkmalbaf, presentato due anni fa alla Mostra di Venezia. Ho preso spunto dalla vicenda narrata, le elezioni e i diritti delle donne, e mi sono sentito come un acrobata che cammina su un filo teso. Il mio è stato un equilibrio precario ottenuto con l’ironia e il senso dell’assurdo. Il mestiere del regista non è forse quello di rilevare le contraddizioni paradossali della vita quotidiana?
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