NAPOLI – Una maestra elementare, vedova, nel tempo del drammatico conto alla rovescia dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, violentata da un soldato tedesco ubriaco, sceglie di essere mamma della creatura frutto dell’abuso: Francesca Archibugi ha adattato – con Francesco Piccolo, Ilaria Macchia e Giulia Calenda – La Storia di Elsa Morante, trasmessa nel gennaio scorso su Rai Uno.
I Nastri d’argento – Grande Serie premiano gli 8 episodi come Serie dell’Anno 2024.
Francesca, Ida Ramundo non nasce originale dalla sua fantasia, eppure, nella Ida che lei ha scritto, che ha messo in forma di cinema, è stata una mia suggestione o c’è qualcosa… dell’anima, della psicologia, del bisogno e della fame di vita della Mignon di Mignon è partita (1988), suo esordio cinematografico?
Queste cose, se entrano in un film, sono inconsapevoli ma sicuramente un certo modo di dipingere un modo femminile di stare al mondo è mio, quindi inevitabilmente rischio di attribuirlo a personaggi differenti. Quello di Ida è un personaggio che abbiamo costruito insieme Jasmine e io, con una grande ansa di sentimenti, mettendo ognuna molto del nostro bagaglio personale.
Jasmine Trinca cosa possiede in più, al di là del talento attoriale, per cui non poteva che essere lei la perfetta Ida di questo suo adattamento?
Jasmine è fatta di due cose: ha qualcosa di infantile, che la Morante di Ida dice in continuazione – ‘…gli occhi da erbivora … la bambina sciupatella …’ – però, nello stesso tempo, è anche terragna; queste due cose, insieme, sono riuscite a rendere molto il personaggio di Ida, che è una impaurita, come una capretta paurosa, come un’erbivora appunto, ma sente tutto attraverso il corpo: non mi sarebbe venuta in mente un’altra interprete.
Lei ha mai conosciuto personalmente Elsa Morante? Mentre, quando l’ha conosciuta artisticamente per la prima volta, e che impronta le ha lasciato quell’incontro, che si è portata con sé in questa serie?
L’ho incontrata per puro caso, avevo 11 anni, perché lei abitava a via dell’Oca a Roma, e mio padre a via della Penna: non è stata particolarmente affettuosa, perché era una donna abbastanza rigida e io ero vestita da bambina ricca e alla moda e così le sono risultata molto antipatica, giustamente. La Storia l’ho letta al liceo ed è stato uno dei miei libri fondativi: mi ha raccontato delle cose che non sapevo della mia città, e che non avevo capito nemmeno attraverso i grandiosi film del Neorealismo italiano, come la violenza e la sopraffazione della guerra, punto massimo dei potenti sui deboli, e poi anche cosa significhi ‘raccontare’, nel senso di mettere al mondo degli esseri umani, perché questo fa Elsa Morante: genera esseri umani che esistono al di là della pagina e restano poi nella vita di tutti, è come se fossero veramente vissuti.
Lei è figlia di poetessa – Muzi Epifani: ha cercato/avvertito di portare, cogliere, restituire, una sensibilità dovuta a questa impronta materna, per cogliere l’essenza, letteraria ma anche poetica, del personaggio femminile della Morante?
È difficile dirlo: mia madre mi ha dato tutto nella vita mettendomi i libri in mano, non come obbligo, ma facendomi capire fossero meglio di una scatola di cioccolatini, perché lì c’era la vita, c’era il divertimento, c’era il mio pomeriggio che diventava meraviglioso, e questa è sicuramente la grande gratitudine a mia madre, che mi ha fatto capire come la Letteratura sia molto più importante della vita, perché attraverso quella vivi tante vite, mentre attraverso la vita vivi solo la tua.
Ha citato il Neorealismo: qual è il suo rapporto cinematografico, artistico, con questo periodo e ne ha attinto per la sua visione e per l’atmosfera de La Storia?
Il Neorealismo, il neo-Neorealismo, il neo-neo-Neoralismo, che a me piace, s’è sviluppato in tutte le epoche e in tutte le parti del globo: quello italiano è stato sconvolgente perché ha portato il cinema nelle strade, ma ci sono tanti ‘realismi’ nel mondo, a cui io guardo; il realismo non è il naturalismo, perché il realismo è sempre una stilizzazione del vero, e questo mi piace: c’è stile, c’è scelta, e non significa piazzare la macchina da presa e riprendere, ma significa costruire un’idea del vero, magari anche falsa, ma che sembri più vera del vero. Mi piace moltissimo il realismo francese degli Anni ’30: se per La Storia ho guardato a qualcosa, ho guardato a La grande illusione (1937) di Jean Renoir, e comunque a quei film in cui la verità è sempre molto mediata dallo stile. Comunque, quando metti in scena nel 2024, lì c’è la tua epoca cinematografica, questo è inevitabile.
La Storia è un racconto in cui lei si confronta con la Storia sociale, la violenza femminile, la maternità, il tutto partendo da un primissimo confronto con la Letteratura. Ciascuno di questi è un grande tema: qual è il principio del tutto e come l’ha tessuto insieme, affinché l’adattamento fosse fedele ma non letterario?
È un’operazione propria del mio lavoro: in questo mi sento tanto un’artigiana, non mi considero mai un’artista. Bisogna far quadrare le cose, bisogna raccontarle andando in profondità, e ci sono delle tecniche che non sono mai fredde, perché nutrite dall’ispirazione; abbiamo proceduto pezzo per pezzo, volta per volta: ci siamo messi prima sulla carta e dopo, da lì, parte un’altra avventura gigantesca, che è quella di rendere tutto vero, tutto credibile, tutto emozionante. Non è che si facciano grandi disegni, quelli li aveva già fatti Elsa Morante, e a quelli bisognava aderire – e io ho aderito da subito, da quando avevo 16 anni; poi, artigianalmente, bisogna far sì che la cosa sia significante, anche attraverso lo stile, che è importante, soprattutto quando sembra non ci sia: è una grande abnegazione, per me, cercare di annullare la macchina da presa per far sì che la storia sembri raccontata da sola, senza il regista demiurgo, e anche questa è una scelta narrativa. Questo non significa che non mi piacciano i registi demiurghi!
Nella scelta degli interpreti maschili – contraltare dell’essere femmina di Ida – sembra lei abbia fatto una selezione più che di attori capaci, proprio di facce, puntando sulle specifiche espressive dei volti, poi primi piani, di Germano, Mastandrea, Nemolato, Zurzolo, in particolare: cosa ha cercato in ciascuno di questi visi perché fossero le personalità e le psicologie degli uomini che racconta Morante e che lei ha voluto ri-raccontare?
Credo che quando sbagli gli attori sbagli il film, per cui è una scelta importantissima. Seppur tu abbia attori importanti, importante davvero è che siano giusti per il ruolo e per l’idea che tu hai del personaggio, e che aderiscano psichicamente alla stessa. Ti devi mettere a pensarli, a incontrarli, a capirli: certo, con grandi attori è tutto facile; Valerio è un attore immenso, di Elio nemmeno ne parliamo, ma anche Nemolato e Zurzolo. Poi – come asso nella manica – ho tirato fuori Nino (Francesco Zenga), importantissimo nel libro: è il racconto di un ragazzo affascinante, con le sue capriole e il suo modo di correre verso la morte, vitale e disperato, ma sempre ridendo, sempre contento; mi sono messa a cercarlo col lanternino tra dei giovanissimi, perché aveva 17 anni quando era sul set; ho cercato fra ragazzi acerbi, ma lui aveva il suo gran talento, perché perfino i bambini possono essere votati – o no – alla recitazione, anche questo è un mistero.
Le riprese, tra le altre location, hanno visto protagonista anche Napoli, città che stasera – 1 giugno 2024 – conferisce a La Storia il Nastro d’argento come Serie dell’Anno: cosa le ha donato di indimenticabile questo luogo nel momento del set e c’è un valore particolare nel ricevere un premio, in questa città, per questa storia?
La Storia è un film del tutto romano però Napoli, quando ci arrivano i personaggi di Davide e Nino, è già liberata, quindi rappresenta la libertà: loro s’affacciano sul Golfo e, seppur si veda intorno l’atmosfera della guerra, in quel momento avevano scavalcato il fronte e raggiunto la libertà. Non so esattamente perché ma, da sempre, per me, Napoli è la libertà.
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