Con Le proprietà dei metalli il regista e sceneggiatore Antonio Bigini esordisce sul grande schermo con un’idea di cinema che si avvale del mistero come forma di racconto. Una sinossi da cinema di genere – un bambino cresciuto in una vasta campagna manifesta poteri paranormali, uno scienziato indaga per capirne di più – diventa occasione per riflettere sull’invisibile e sul desiderio umano di vedere i miracoli avverarsi. Un film volontariamente anti spettacolare, che interroga lo spettatore e se ne fa specchio: chi vorrà credere al bambino potrà farlo, ma non ci si aspetti che sia Bigini a mettere in scena una risposta. Un’idea chiara, di cinema, di immagine. Un esordio che attrae per ciò che decide di non essere: facile, “frizzante”, come ci racconta Bigini. Al centro, un fatto di cronaca risalente alla fine degli anni ’70, quando alcune famiglie iniziarono a sostenere i presunti poteri magici dei figli, i “minigeller”, dall’illusionista Uri Geller, apparentemente capace di piegare cucchiai e chiavi.
Con Le proprietà dei metalli Bigini entra in una famiglia di campagna, traendo le ultime forme di un paganesimo rurale, destinato a scomparire con l’avvento degli anni ’80 e la società dei consumi. Il film è stato presentato in anteprima al 73esimo Festival Internazionale del Cinema di Berlino, nella sezione Generation K Plus, e arriverà nelle sale italiane da giovedì 18 maggio con Kiné in collaborazione con Lo Scrittoio.
In occasione del Bellaria Film Festival 2023, dove Le proprietà dei metalli è stato mostrato al pubblico nella serata di pre-apertura del 10 maggio, abbiamo incontrato Bigini. “Sono contento comunque di aver fatto un film così, magari non scontato”, racconta rivelando la consapevolezza con cui è sfuggito a ogni forma di cinema di genere. “Non mi interessava parlare di paranormalità, ma di mistero in generale, della natura e forse dei limiti di certe nostre capacità di conoscere le cose”.
Le proprietà dei metalli prende spunto dal fenomeno dei “minigeller”, questi bambini convinti di possedere poteri paranormali. Raccontaci meglio chi sono
Tutto nasce da questo Uri Geller, un presunto mago. Una persona che si pensava avesse dei poteri strani, e in realtà di fatto era un illusionista e anche un po’ un truffatore. Difatti è stato smascherato più volte. Però andava in Rai, in altre tv di stato europee e non solo, a far vedere le sue doti e le sue capacità. E questo ha generato un processo di imitazione, fenomeni spontanei di bambini, in tutta Europa, Italia compresa, che cercavano di fare la stessa cosa, come piegare i metalli. Questo è il dato storico essenziale, poi di fatto io a questa storia ci sono arrivato perché ho conosciuto uno scienziato di Bologna, che è ancora vivo e ha un’ottantina di anni. Si chiama Ferdinando Bersani e ha studiato questi bambini, perché in quegli anni, fine anni ’70, la parapsicologia era una disciplina.
È da lui che è tratto il personaggio dello scienziato americano quindi…
Sì, Le proprietà dei metalli nasce dall’incontro con questa persona, che ha condiviso con me dei diari, delle storie, e in particolare un racconto che mi ha ispirato più di altri. Questo però è solo il punto di partenza, il film è tutt’altro. Non è un film dove questa cosa è affrontata di petto, è semplicemente uno spunto per parlare d’altro. A me non interessa parlare di paranormalità o fenomeni, voglio parlare di dinamiche padre-figlio, di mistero in generale, della natura e forse dei limiti di certe nostre capacità di conoscere le cose. Il nucleo è un po’ questa invisibilità, che sta dietro anche alle emozioni e ai rapporti umani.
Il film lavora sul nostro rapporto con il mistero, e in particolare sulla relazione che un preciso contesto ruruale intercorreva con ciò che è invisibile. Tu hai scelto di non mostrare mai i bambini piegare o meno i metalli, celando il mistero e togliendo forse l’elemento da “film di genere” di questa storia. Raccontaci questa scelta di regia così precisa
È stata una scelta molto ponderata, anche faticosa. Perché depotenzia le possibilità di spettacolo del film, forse frustra delle attese rispetto al racconto, quindi sapevo che poteva avere dei riscontri non positivi. Devi fare i conti con le attese del pubblico. Però per me è stata una scelta consapevole, voluta. Perché, come ti dicevo, per me è un film che parla dell’invisibile, di quello che non si vede. Mostrare una cosa sarebbe stato per me contrario rispetto a quello di cui volevo parlare e volevo lasciare questo nucleo intonso. Sarebbe stato un errore per me. Ci ho pensato e ti devo dire che io quella scena l’ho girata. Ho girato il bambino che piega il cucchiaio, con tanto di effetti speciali. Ad un certo punto però quando mi sono trovato in fase di montaggio ho deciso di non usarla, perché sarebbe stato incoerente rispetto al senso del film.
Quindi la scena era stata effettivamente pensata, scritta e girata…e com’è?
L’avevo scritta e girata, con un carrello che va verso il bambino e il momento in cui si piega il cucchiaio. Durante alcune visite per preparare il film mi sono reso conto che molte persone non leggevano questa storia come una sorta di invenzione, quindi negando la visione aprivo anche a letture diverse. Questa cosa mi ha fatto capire che il film era anche un effetto specchio rispetto al credo di ogni singolo spettatore, e l’idea di sottrarre non era per me un non schierarmi rispetto al tema, ma un modo per per dare più ruolo allo spettatore, di decidere se credere o no a queste cose.
Prendendo spunto da questa idea di cosa si debba mostrare e cosa no, Le proprietà dei metalli è il tuo esordio al lungometraggio ed è una presa di distanza se vogliamo da un certo cinema di genere o spettacolare. Lo dobbiamo prendere come l’inizio di una poetica?
Sicuramente è un mio modo di pensare, un mio credo maturato in anni di frequentazione del cinema in tante forme. È vero, è il mio primo film e ho una mia visione molto precisa, quindi l’idea di sfuggire a una cosa di genere è stata estremante consapevole e voluta. Anche la volontà di usare un linguaggio che poi rimanesse, contro quello che vediamo normalmente, cioè non inseguo minimamente uno stile televisivo di risveglio continuo dell’occhio e del tenere lì lo spettatore. No, anzi, cerco di dargli il tempo. Credo sia un film che richiede gli occhi dello spettatore, ma non lo travolge di roba, gli lascia il tempo di digerire. Ha una temporalità volutamente dilatata e un linguaggio molto elementare, semplice, anche se ha la sua sofisticatezza, magari all’interno del montaggio. Insomma, volevo fare un film rispettoso e non lo so se questo è un segnale dei lavori che farò, però sicuramente la mia strada è un cinema così, aderente a delle storie e a delle sensibilità, con un rispetto molto profondo per il pubblico in tutte le sue forme. Poi non so se il prossimo film sarà scoppiettante, ma non credo. Però spero di non aver fatto un film noioso. Ecco questo per me la cosa importante, nonostante appunto sia un film un po’ anti spettacolare.
Però mi hai detto che alle proiezioni con bambini è andato bene, è un buon segno…
Ecco, appunto per quello infatti son contento. Ecco, per quello ho visto che gli applausi erano sinceri e non ho sentito sbadiglio o rumori in sala, distrazioni. Sono contento comunque di aver fatto un film così, magari non scontato.
Un altro aspetto interessante è l’epoca. Gli anni ’70 sono spesso raccontati dal fronte politico, mentre la tua storia esce dai confini dei manifesti e si inserisce in un contesto in realtà diffusissimo, dove idee anche assurde e paranormali presero piede o in alcuni casi, come nelle campagne, esalarono il proprio ultimo respiro
Chiaro, quella roba lì faceva assolutamente parte degli anni ’70. Tutto questo misticismo, questa passione per i mondi paralleli, per le visioni. Abbiamo ereditato una visione degli anni ’70 parziale, tutta appiattita sul discorso ideologico e politico. Ma gli anni ’70 erano anche una ricerca, se vuoi spirituale. Una forma di misticismo diffuso e allo stesso tempo anche qualcosa con aspetti un po più strampalati, se vogliamo irregolari, ma erano parte dello spirito del tempo, come la ricerca di una dimensione altra all’interno delle droghe. Questa roba qua effettivamente noi l’abbiamo vista semmai nei nei film di genere, però effettivamente più degli anni ’80 americani. Ho visto adesso che è uscito un libro di WuMing che si intitola Ufo78. Io non lo sapevo, nonostante conosca Giovanni Cattabriga, che è Wu Ming 2, non ne avevamo parlato. Mi ha incuriosito scoprire che anche loro hanno sentito la necessità di raccontare quell’aspetto in quel momento storico, io l’ho circoscritto a una storia familiare, però è uno sfondo comune.
Quale idea ti sei fatto alla fine di questa storia? Cosa è successo secondo te?
Io penso che ci sia stato un movimento interessante, anche di persone che si sono interrogate su qualcosa di misterioso, chiedendosi se fosse possibile dimostrarlo scientificamente. C’è stato questo slancio della scienza che a me un po’ mi intenerisce, e da una parte mi piace che ci sia stato. Adesso chiaramente sono cose che in parte fanno sorridere, ma anche le nuove frontiere della scienza della fisica forse stanno rimettendo un po’ in questione le ultime visioni della realtà e le nostre certezze. Ad esempio ora si parla di entanglement e le ricerche della fisica quantistica sfidano il senso comune. Magari alcune cose che diamo per assodato forse non lo sono davvero più. Però, a parte questo, io mi sono fatto l’idea che da una parte c’era una scienza più disposta a interrogarsi su alcune cose, dall’altra c’era un mondo che ancora aveva gli ultimi focolai di paganesimo, per cui c’erano veramente dei retaggi quasi ancestrali di magia popolare. La religione cattolica ovviamente permeava questi mondi contadini, però ha sempre lasciato delle sacche di resistenza, dove hanno trovato posto credi anche molto semplici, di persone che credevano anche in magie quotidiane, piccoli miracoli. Io non ci credo, però il punto non è quello, il punto è che c’era gente che ci credeva. C’erano famiglie che ci credevano, i bambini ci credevano loro stessi, ma i bambini sono bambini. Anch’io da piccolo pensavo di spostare i bicchieri col pensiero. Fa parte dell’infanzia, dello scoprire la realtà. Ma c’erano un contesto contadino che dava credito a tutto questo, con la tv che alimentava tutto. Dall’altra parte c’erano degli scienziati che credevano che queste cose fossero possibili. Era un mondo completamente diverso, nonostante siano meno di 50 anni fa. Oggi il mondo ha sposato completamente la forma del materialismo e dello scetticismo, e io dico anche per fortuna, sto nel mio tempo. Però mi piace vedere a quel mondo e alla meraviglia che era possibile, alla sua ingenuità, a un’infanzia dello sguardo che era trasversale a bambini e adulti. Per me questa è una storia che poteva accadere solo in quegli anni lì, oggi non sarebbe possibile. È la ragione per cui l’ho ambientata in quel periodo, mi ha affascinato e, cosa posso aggiungere, è bello sia esistita.
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