Cosa Nostra vista dal basso. Con gli occhi un picciotto qualsiasi, un ragazzo della Vucciria o della Kalsa che non ha quasi conosciuto suo padre, ucciso in galera nel corso di una rivolta, e che ha trovato un modello, forse un secondo padre, nel boss del quartiere. Il dolce e l’amaro, secondo titolo italiano del concorso di Venezia 64, con Luigi Lo Cascio, Donatella Finocchiaro, Fabrizio Gifuni, Renato Carpentieri, Vincenzo Amato è una storia palermitana, ambientata negli anni ’80, una storia di crimine e d’amore respinto, perché il protagonista è innamorato da sempre di una maestra elementare ma lei non vuol saperne di sposare un delinquente. Applaudito dal pubblico della Mostra, anche se ha lasciato molti critici perplessi perché è sembrato poco adatto al concorso, è un film onesto, documentato, scritto con grande attenzione ai dettagli. “Vorremmo proiettarlo anche nelle scuole perché smitizza la mafia”, dice Giampaolo Letta (Medusa) e il coproduttore Francesco Tornatore (Sciarlò) gli fa eco: “Risponde a una domanda che c’è nella coscienza degli italiani, perché cerca di raccontare i mafiosi in un altro modo, non eroico: i mafiosi non sono tutti come Don Vito Corleone”. Chiosa il regista: “Come si diceva nei film degli anni ’40, il crimine non paga”. Per Luigi Lo Cascio, il Peppino Impastato dei Cento passi, “sarebbe bello pensare che la mafia, come ogni altro fenomeno storico, possa finire, come un giorno è cominciata, che non sia un destino ineluttabile”. In sala da mercoledì 5 settembre, Il dolce e l’amaro è l’opera seconda di Andrea Porporati che con Sole negli occhi aveva raccontato un parricidio consumato quasi senza motivo e che è stato anche sceneggiatore di Gianni Amelio e della Piovra.
Porporati, perché ha scelto di descrivere i rituali di Cosa Nostra in modo minuzioso e spesso rendendoli ridicoli.
Sono rituali ormai noti, su cui molto è stato detto e scritto. A me interessava mostrarne il lato grottesco, togliere sacralità. Come avveniva in un film di Monicelli, Un borghese piccolo piccolo, per l’iniziazione alla massoneria… O come nel Mafioso di Lattuada con Alberto Sordi, che è forse il film sulla mafia a cui mi sento più vicino.
Nei film italiani qui alla Mostra si parla molto di paternità: reale o simbolica.
Non posso rispondere anche per gli altri, ma azzardo una riflessione generale. Il nostro mondo è molto cambiato, i figli sono molto più diversi dai padri di un tempo e c’è una maggiore difficoltà a trovarsi. Così questa ricerca viene fuori, magari inconsciamente.
Voleva anche raccontare una storia di formazione.
Di formazione o meglio di deformazione. Questo ragazzo vuole prendere solo il dolce della vita, come molti negli anni ’80, in quel periodo di ubriacatura collettiva che non riguarda solo la Sicilia ma l’Italia intera: in cambio della sicurezza Saro Scordia rinuncia alla sua identità. Ma poi c’è un lento erodersi delle sue certezze. Era un ragazzo e vedeva tutto come una favola, poi diventa uomo e vede le cose come stanno.
Si sente a suo agio in concorso?
Il concorso è una grande responsabilità, perché negarlo? In queste ultime settimane sono invecchiato repentinamente. Soffro ma sono anche felice.
A che punto è il cinema italiano?
Io credo che negli ultimi anni sia stato difficile capire cos’è l’Italia perché è cambiata molto e molto in fretta. Però l’Italia è l’unico paese dove trovi le foto di Totò e Alberto Sordi appese nei bar. C’è sempre stato un rapporto forte con il cinema che si è incrinato per un certo tempo. Adesso quella voglia di raccontare gli italiani a se stessi, senza avere la pretesa di sapere già chi sono e senza disprezzarli, è tornata. Vedo film interessanti: Luchetti, Sorrentino, Garrone, Vicari… Credo che il nostro primo dovere come autori sia ritrovare la dimensione del rapporto con il pubblico, un modo popolare di raccontare.
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