American Graffiti uscì nelle sale l’11 agosto 1973, mentre i giornali davano notizia delle udienze del Watergate e dei bombardamenti americani in Cambogia. Ad eccezione del critico cinematografico del “San Francisco Chronicle” Anitra Earle, che lo definì “senza dubbio il film più noioso che abbia mai visto”, i recensori ne furono generalmente entusiasti.
Il pubblico riempì le sale e cinque mesi dopo (era il gennaio del 74) i cinema pubblicizzavano ancora le proiezioni giornaliere. L’impatto culturale fu immediato. Gli spin-off nostalgici come Happy Days e Laverne & Shirley arrivarono in televisione conquistando ascolti straordinari. In tutta l’America spuntano tavole calde a tema anni Cinquanta e il cantante Billy Joel incide canzoni di successo in stile doo-wop.
Il film è ambientato nel 1962 ed è difficile credere che solo 11 anni separino il periodo in cui è ambientato il film originale dall’anno in cui è uscito. Oggi pensiamo che la vita scorra velocemente, ma se uscisse un film sul 2012 oggi, le differenze principali sarebbero un iPhone di una generazione precedente e la lentezza di Internet. Per l’America invece c’era stata la grande frattura del 22 novembre 1963. Dopo l’assassinio di John F. Kennedy nulla fu come prima. Poi Bobby Kennedy e infine Martin Luther King Jr. furono uccisi a colpi di pistola nel giro di poco tempo.
American Graffiti non parla solo della fine della giovinezza, ma anche della fine dell’innocenza.
È la contagiosità del suo spirito leggero che rende American Graffiti così piacevole. Se è vero che un grande film si misura nella capacità di agire come una macchina per creare empatia, ci troviamo di fronte a un capolavoro assoluto. George Lucas guarda con occhi colmi di nostalgia a un’epoca che ritiene davvero più semplice, in cui avere l’auto più veloce era importante quanto avere un lavoro. E come dargli torto? il regista permette alle sue esperienze dell’epoca di diventare le nostre, anche se non abbiamo mai vissuto negli Stati Uniti e negli anni sessanta. Le gioie più grandi del film derivano dal fatto che Lucas ci permette di condividere i suoi affetti, le sue emozioni, la sua passione per il rock del 1962 che si rispecchia in noi.
“Dov’eri nel ’62?” chiedevano le locandine del film quando American Graffiti debuttò nell’estate del 1973. Non importava dove foste, perché guardare il film, che fosse per la prima volta o per la quarantesima, vi mette proprio dove Lucas vuole che siate. E cioè nella sua città natale di Modesto, in California, negli ultimi giorni d’oro dei greasers, dei bobby socks, delle gonne a palloncino e del doo-wop che rimbombava dagli altoparlanti del cruscotto.
In occasione del suo 50° anniversario ricordiamo che American Graffiti si trova nella prestigiosa lista dei 100 migliori film dell’American Film Institute (precisamente al 77° posto, stretto tra Luci della Città e Rocky). È stato candidato a cinque premi Oscar ed è considerato da alcuni il primo “summer blockbuster” dell’industria cinematografica, con un incasso tale da essere uno dei film più redditizi mai realizzati in base al rapporto di rendimento sui costi. Costò infatti solo 770.000 dollari e ne incassò oltre 55 milioni. A questi si aggiunsero altri 63 milioni di dollari quando fu ripubblicato nel 1978, in coincidenza con il suo quinto anniversario e con il successo travolgente di Guerre Stellari.
Così Lucas uscì fuori da una mediocrità economica e dall’ombra, facendo di lui un milionario da un giorno all’altro e lanciandolo verso la sua successiva tappa in una galassia molto, molto lontana da Modesto. Prima di American Graffiti, infatti, Lucas veniva da un sonoro flop: il suo debutto alla sceneggiatura e alla regia era THX 1138. Un cupo noir fantascientifico prodotto dalla neonata casa di produzione American Zoetrope di Francis Ford Coppola. Ricco di ingegno ma forse un po’ troppo all’avanguardia, THX 1138 fu davvero un fiasco clamoroso. Il film era andato a Cannes ma aveva ricevuto recensioni piuttosto tiepide e poi era passato inosservato al botteghino. Lucas, all’epoca ventiseienne, prese la battuta d’arresto con “arroganza autoindulgente”: la colpa era del pubblico, che non era stato all’altezza del film.
Fu il suo mentore – Coppola – che aveva raggiunto la fama planetaria con Il Padrino, a consigliargli di sviluppare un progetto più leggero. Preoccupato per il blocco creativo del suo partner che si leccava le ferite, Coppola gli raccomandò di fare un film “umano”, non un altro vacuo esperimento per intellettuali: “Tutti pensano che tu sia una specie di ameba”, gli disse Coppola, “ma io so che se ti impegni puoi essere un uomo molto gentile e caloroso. Voglio vedere questo nel tuo cinema. È quello di cui hai bisogno se vuoi sfondare nel mondo del cinema”.
Lucas e i co-sceneggiatori Gloria Katz e William Huyck abbandonarono ogni ambizione di trama per una serie di sketch in gran parte comici, ognuno dei quali ruota attorno a un gruppo di amici che si trovano a malincuore alle soglie del college. Il film si muove tra quelle che si possono ridurre a quattro sotto-storie, mentre riflette in modo spensierato sull’esistenzialismo, il sesso, le automobili e le relazioni, il tutto alimentato da un cast incredibilmente vivace.
Richard Dreyfus è meravigliosamente acuto e al tempo stesso discreto nel ruolo di Curt, un ragazzo intelligente in difficoltà nel trovare uno scopo dopo la scuola. Le riflessioni esistenziali gli graffiano l’anima e si trova lacerato dal dubbio: andare al college come previsto o forse inseguire per il resto dei suoi giorni una misteriosa bionda in una Ford Thunderbird che vede una notte attraverso il finestrino dell’auto. Un miraggio, una fantasia, l’ultima tentazione di una giovinezza il cui fantasma non si decide a sparire.
Il caro amico di Curt, Steve (Ron Howard, al suo primo importare ruolo da protagonista adulto dopo una carriera da bambino prodigio), non ha riserve sul fatto di andare al college, ma i suoi problemi sono legati alla sorella dello stesso Curt, Laurie (Cindy Williams), con cui fa coppia fissa, e all’opportunità o meno di abbandonare la relazione quando si trasferisce al Nord per gli studi. Ed è in questa sottotrama del film che si concentrano le riflessioni del film sull’amore e sulle relazioni.
Lucas voleva uno stile documentaristico e diede agli attori pochissime indicazioni, incoraggiando l’improvvisazione mentre la macchina da presa girava. Quasi sempre, come gli interpreti poi dichiararono in interviste successive, Lucas sceglieva le riprese più approssimative, considerandole le più naturali. Come nella scena di apertura da Mel’s, quando Charles Martin Smith arriva su una Vespa, perde accidentalmente la frizione e si schianta contro un bidone della spazzatura. Nel primo minuto del film, questo errore involontario stabilisce con precisione il personaggio di Terry il rospo, che diventa la spalla comica del film.
Lucas ha tentato di concludere la sua storia con un epilogo che precede i titoli di coda e che descrive i diversi destini dei suoi quattro protagonisti. Ma il film fece talmente tanti soldi che un sequel era praticamente inevitabile. Un Lucas improvvisamente molto importante e impegnato – Guerre stellari, Indiana Jones, la fondazione della Lucasfilm e della Industrial Light & Magic, ecc. – fu coinvolto solo come produttore esecutivo nel seguito del 1979, More American Graffiti (che da noi fu semplicemente American Graffiti 2). Il film ha riportato i personaggi, ad eccezione del Curt di Dreyfuss, nel vortice degli anni Sessanta, ma con risultati meno affascinanti.
Forse nessuno voleva davvero crescere, dopo tutto. È questo il problema delle storie di formazione: una volta che i personaggi diventano maggiorenni, si vuole riavvolgere il nastro e tornare alla loro giovinezza disinibita. George Lucas lo ha fatto in modo spettacolare per tutti noi, creando un invitante santuario multisensoriale in cui potersi accoccolare ogni volta che se ne ha voglia.
La mini serie debuttava il 19 dicembre 1964, in prima serata su Rai Uno: Lina Wertmüller firma la regia delle 8 puntate in bianco e nero, dall’originale letterario di Vamba. Il progetto per il piccolo schermo vanta costumi di Piero Tosi, e musiche di Luis Bacalov e Nino Rota
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