Gentile appello di Pedro Almodóvar ai giornalisti italiani: “Il mio è un film che va metabolizzato, dormiteci su”. Il regista spagnolo sdrammatizza così l’accoglienza non entusiastica al suo La pelle che abito, da venerdì 23 settembre nelle nostre sale in 300 copie con la Warner. Un horror senza un filo di sangue, orrore della mente con il protagonista, il chirurgo Robert Ledgard che compie “un enorme abuso di potere” modificando il corpo e la pelle di un altro essere umano per spirito di vendetta. Pedro è in procinto di sapere se andrà agli Oscar: “L’Accademia del cinema spagnolo ha indicato una terna di film, tra cui il mio… Peccato che voi non potert votare per me, mi metterei in ginocchio per chiedervelo”. E il fedele Antonio Banderas, ritrovato quasi trent’anni anni dopo i suoi straordinari inizi con Labirinto di passioni (1982) e dopo ventuno di percorsi separati ma di costante amicizia, per il ruolo del freddo e diabolico Ledgard, gli dà manforte: “Pedro ha certamente fatto film più mainstream come Volver e Donne sull’orlo di una crisi di nervi, ma è con opere come La pelle che abito, come Lègami o La legge del desiderio che si sporca le mani e crea qualcosa di veramente unico e originale… Il suo cinema rompe i codici e le regole e io so che, qualsiasi cosa accada, un giorno sarò ricordato per le cose che ho fatto con lui”.
Banderas, in giacca jeans e t-shirt bianca, è a Roma insieme all’attrice Elena Anaya e al suo amato regista. Che si lancia in una lunga e colta riflessione sull’ingegneria genetica e la chirurgia plastica, ma poi conclude con una battuta delle sue: “Donne operate sarebbe il titolo perfetto per una sit-com, tipo casalinghe disperate, ma disperate per trovare i soldi per i ritocchi”. Elogia Marisa Paredes, che nel film si mostra così com’è, con rughe e tutto, nel ruolo della madre. “Mi piacciano i volti umani – spiega – che corrispondono al percorso di una vita. Non capisco i registi che usano un naso rifatto nel 2010 in un film ambientato nel XIX secolo, è come minimo anacronistico”. E racconta: “Qualche anno fa, su Vanity Fair, c’era un servizio fotografico sulle donne di Elvis Presley e la nipote sembrava più vecchia della nonna, Priscilla”.
Sull’argomento interviene anche Banderas, attento a non cadere nel ridicolo, visto che sua moglie Melanie Griffith non è proprio una paladina della lotta alla chirurgia estetica. “Il discorso sulla chirurgia è la parte più superficiale e aneddotica, anche se me lo chiedono tutti, soprattutto a Hollywood. Penso che in questo film sia più interessante la riflessione sulla linea sottile che, nel mio personaggio, separa il mostro psicopatico dall’artista creatore. In fondo questo è proprio un film sulla creazione e quando Ledgard si avvicina a Vera è come se fosse innamorato di se stesso e della sua opera… Sul set ogni tanto pensavo a cosa potesse provare Leonardo da Vinci ad andare a letto con la Gioconda“, dice il divo, che presto tornerà come voce del Gatto con gli stivali anche nella versione italiana del cartoon.
“Oggi non si può più dire che il viso sia lo specchio dell’anima – prosegue Pedro – tutto è manipolabile, dai lineamenti al colore della pelle. Ma credo che il film trascenda questo aspetto per parlare del futuro dell’umanità, quando forse si potrà dare vita a esseri più sani o più perfetti attraverso la manipolazione genetica, l’incrocio con altre razze. Speriamo che la scienza resti in mano a persone corrette e con i piedi per terra, che gli scienziati non siano dei malvagi”. Elena Anaya nel film ha il difficile ruolo di una creatura ambigua, quasi una bambola trans che vive reclusa in una stanza videosorvegliata consolandosi col pilates e l’arte contemporanea. “Avevo già lavorato con Pedro in Parla con lei, stavolta però mi toccava un ruolo complesso, a cui lui stava pensando da dieci anni. C’è stato un momento in cui mi sono sentita come Gena Rowlands in La sera della prima… E Almodóvar mi ha detto: devi attraversare questo passaggio da sola, io ti aspetto dall’altro lato”.
Lui, il deus ex machina di tutto questo, ascolta sornione. E continua a sviscerare i recessi di un film estremo e molto controllato (“proprio per evitare sottolineature che sarebbero state insostenibili ho rinunciato al gore, allo splatter”, spiega): “La pelle che abito parla di istinto di sopravvivenza e di identità, qualcosa di intangibile, a cui gli altri non hanno accesso. L’identità è al di sopra dell’immagine e persino del sesso, non cambia nonostante tutte le manipolazioni possibili”. Prossimo progetto? “Forse una commedia… in Spagna mi fermano per strada per chiedermela”.
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