TORINO – Nomen omen. Nero è una tonalità di colore che può portare con sé eleganza, fascino, raffinatezza, altrettanto la sua oscurità insita è messaggera di qualcosa che quantomeno stia in un cono d’ombra, o sia illuminato nella sua essenza più spregevole. È il lato oscuro dell’essere umano.
Nero è un titolo, quello del film scritto, interpretato e diretto da Giovanni Esposito, al TFF42 nella sezione Zibaldone, e Nero è il personaggio a cui dà vita, un delinquente, uno che vive di piccoli crimini, e – in fondo – lo fa per spirito di sopravvivenza e carità famigliare, per mantenere la sorella Imma (Susy Del Giudice), attanagliata da importanti disturbi mentali.
Se questo Nero è un nero sbiadito nella sua sostanza effettiva, succede l’imponderabile quando dalla propria pistola parte un colpo accidentale durante una rapina, e così finisce un benzinaio. Nero è sì un delinquente, ma non è un essere umano privo di scrupoli, pertanto fugge, scioccato; una doppia scossa lo scombussola, quando scopre il risveglio dell’uomo colpito, anche illeso: un miracolo! Sì, proprio un miracolo, attribuito alla Madonna dei detersivi, statuetta miracolosa, seppur il potere salvifico parrebbe invece da attribuire proprio a Nero, secondo il poliziotto Abate (Giovanni Calcagno), che indaga sul fatto criminale.
È la disperazione a convincere l’uomo di Legge o c’è del vero nella sua interpretazione dei fatti? La figlia di Abate è in coma da anni ma… Nero riesce a risvegliarla. Dunque, il Nero è luce? Da una parte sì, ma – come una legge del contrappasso – Nero deve espiare il suo dono: il costo carissimo di ciascun miracolo è la perdita progressiva di uno dei cinque sensi.
Il dubbio si fa amletico: essere o non essere miracoloso?
Giovanni, una riflessione sulla locuzione latina ‘nomen omen’ per cui ‘il nome è un presagio’ e sul valore del colore, in questo caso il nero, simbolo e identità: quanto ha pensato e cercato l’essenza di questi concetti per il suo personaggio?
Nomen omen è stato da sempre un punto di riferimento, qualcosa da cui partire e a cui tornare: escatologicamente e circolarmente per come parte la storia, ma anche essenzialmente per quel che questo colore può creare negli altri, e quello che altrettanto può scaturire di meraviglioso. Questa dicotomia credo sia l’essenza del film: lui parte come uno che ha un’anima nera, in questo luogo dove tante persone di colore vengono dall’Africa, sapendo che verranno accolte, lì ci vivono e sono molto più bianchi, diciamo così, di alcuni personaggi bianchi davvero… Ovviamente, il nero è anche il colore di qualcosa che gli accadrà, che gli sarà sottratto in seguito. È un complesso di cose da cui sono partito, infine per arrivare.
Nel film sembra proprio esserci anche Dante, con il contrappasso: perché lei ha scelto di ‘far pagare’ a Nero il suo positivo dono naturale?
C’è in assoluto il contrappasso dantesco e c’è anche una specie di sacrificio sostitutivo, diciamo: qualcosa che rimanda molto alla cristianità, ma che rimanda a tutte le religioni, un qualcosa di mistico e religioso. C’è un sacrificio che bisogna fare e quando fai un sacrificio, quando ami veramente tanto, qualcosa la devi rendere, la devi lasciare e devi rinunciare. Quindi, questo è un concetto e un faro che abbiamo sempre avuto con Francesco Prisco e Valentina Farinacci, già dalla prima idea del film: volevamo andare in quella direzione, perché pare che in questa società ormai i sacrifici non siano più contemplati, ma che debba andare tutto perfettamente. Invece, dal sacrificio, secondo me, viene fuori qualcosa che ci salverà in qualche modo, e che potrà salvare qualcun altro. C’era questa voglia di dire: ‘guarda, sacrificati perché poi qualcosa avverrà in qualche modo’ e il personaggio pian piano lo capisce; Nero non è uno molto intelligente, però gradualmente capisce…, anche attraverso questa sorella, che è il suo punto di riferimento, un amore enorme che lo porta a comprendere delle cose e quindi, questo contrappasso dantesco, in qualche modo sarà salvifico.
Restando in tema di grandi autori, esclude o conferma che in fondo ci sia anche Shakespeare nel suo film? Mi spiego, il dubbio di Nero se continuare a esercitare il suo dono o meno è amletico: essere o non essere miracoloso?
Guardi, io ho sempre pensato che Shakespeare ci condizioni completamente la vita, quello a cui pensiamo, che scriviamo; mi ritrovo spesso a pensare ‘caspita, ma questa cosa è completamente shakespeariana!’, anche inconsapevolmente, perché ce l’hai dentro, perché attiene alla vita. Shakespeare ha fatto una riflessione molto profonda della vita e l’ha detta agli altri, mentre certe volte queste riflessioni le facciamo, sì, ma non abbiamo il coraggio di dirle, di esporci, però ce le portiamo dentro. Sono felice se viene fuori che ci sia qualcosa di shakespeariano in questi personaggi, assolutamente.
C’è anche un gioco di guardie e ladri nel film, in cui però gli archetipi si liberano del proprio profilo tradizionale e si va all’essenza dell’umano: perché l’uomo che scopre il dono di Nero ha scelto fosse una forza dell’ordine, uno che di solito punisce quelli come Nero?
Prima di tutto perché penso che l’umanità non abbia ‘divise’ o comunque non debba avere ‘divise’. Poi, penso che qualcuno abituato a guardare più nello specifico delle cose, come le forze dell’ordine, abbia un occhio più; e, soprattutto, la speranza ti fa vedere qualcosa che gli altri non vedono. E lui, questa speranza, questo personaggio che interpreta Giovanni Calcagno, attore straordinario, penso la viva, affinché possa succedere qualcosa per sua figlia. La speranza ti fa vedere cose che gli altri non vedono, è questo che lo conduce.
È cosa sdoganata che sacro e profano, nella cultura, nella spiritualità, nel quotidiano napoletano abbiano spesso un confine labilissimo, insomma si prega San Gennaio e intanto si fanno scongiuri con il cornetto: questo spirito, quanto le appartiene, da napoletano, e quanto pensa sia presente nell’atmosfera del film?
Come napoletano non mi prende molto la superstizione, però sono cresciuto con il racconto del culto dei morti, delle anime dei morti. Non a caso, mio padre e mia madre avevano la loro ‘testa’ al cimitero delle Fontanelle, l’ossario dove tu adottavi un teschio e te lo andavi a curare: a Napoli si dice che andavi a… rinfrescarlo, lo pulivi e facevi delle preghiere a queste anime del Purgatorio. Questa cosa qua, in qualche modo, mi è sempre rimasta dentro e penso che Napoli sia completamente pervasa da tutto questo, da questa vita e morte che continuano a dialogare, continuamente. È come Eros e Thanatos, ma l’Eros nella sua forma più importante, qui espresso nell’amore per questa sorella, tanto che a un certo punto diventa ‘una storia d’amore’ tra fratelli; questo, unito al soprannaturale, è un qualcosa che crea un motore, una propulsione incredibile, ed è qualcosa che non riesci a vedere inizialmente. Napoli è completamente piena di tutto questo, come il fatto che noi abbiamo il sotto e il sopra della città così in comunicazione costante: ecco, siamo un po’ come Stranger Things.
Tra i ruoli prototipici ci sono Peppe Lanzetta per il medico e Roberto De Francesco per il prete, poi la coppia dei Cincotti, un inedito duo con Cristina Donadio e Alessandro Haber.
Ha presente quelle cose che quando scrivi sono un po’ irreali? Quando pensi: ‘come mi piacerebbe se questo personaggio lo facesse Roberto’, e quindi scrivi pensando a lui o a Peppe, con cui ci conosciamo da una vita, per cui poi provi a chiederglielo…, anche se sono dei piccoli personaggi, e quindi domandi con tutta la vergogna possibile, perché immagini possano risponderti ‘perché non hai pensato a me per un ruolo grosso?’. Però, c’era il rapporto costruito in questi anni, e loro leggendo il film hanno detto sì, Roberto subito, che per me è un attore strepitoso: quando lo guardo assomiglia a Seymour Hoffman, o no? Roberto mi ha detto: ‘tu non mi devi proprio neanche chiedere, ho letto la sceneggiatura e basta così’, lo stesso Cristina, e Alessandro, a cui ho detto ‘mandami pure a quel paese, lo accetto’, invece mi ha risposto ‘ma che cazzo dici, Esposito?’ – perché lui ti chiama per cognome, sempre – ed è venuto con grande piacere; quindi, sono stato fortunatissimo: E così è accaduto anche con Anbeta (Toromani), che non ha mai fatto l’attrice, ma io ce l’ho sempre avuta in testa; quando gliel’ho detto, mi ha risposto ‘ma tu sei pazzo, io non lo farò mai’, poi – piano piano, piano piano, piano piano… – Susy, mia moglie, che interpreta Imma nel film, si è messa a farle vedere le cose, Anbeta si è tranquillizzata, ed è venuto fuori quello che io avevo in mente dall’inizio, quella figura lì: quel rigore che ha lei nella vita, che le appartiene, è il personaggio.
Il film debutta qui a Torino, ma porta già con sé una prospettiva di distribuzione?
Sì, uscirà in primavera, con RS Distribution, quindi sono felice anche di questo, perché è un film piccolo, che però penso possa regalare tanto agli spettatori: sono convinto che il pubblico in sala lo potrà accogliere, perché è una storia tenera, calata in questo realismo magico, in posti in cui ci sono ingredienti iperrealistici, per cui potrebbe interessare; quindi, appunto, usciremo in primavera, con calma e con i dovuti passi, da fare piano piano, ma siamo convinti che accompagnandolo bene ci potrà dare delle soddisfazioni, ma intanto partire da qui è una gioia: per chi come me fa questo mestiere da un bel po’ di anni il TFF è sempre stato un punto di riferimento di grandissima qualità e quando abbiamo saputo che Giulio Base e la commissione l’avevano accolto è stata una gioia incredibile. Sono molto, molto felice.
Nero – con la fotografia di Daniele Ciprì – è una produzione BartlebyFilm, Run Film, Pepito Produzioni con Rai Cinema.
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