L’attualità mascherata da fantascienza, un prossimo futuro – il 2027 – apocalittico, in cui non nascono più bambini da 18 anni, la guerra imperversa in tutto il pianeta salvo che in Gran Bretagna, dove milioni di immigrati cercano di entrare per poi essere rinchiusi in luoghi molto simili a lager. E’ lo scenario dipinto da Alfonso Cuarón in I figli degli uomini, il suo film tratto dal romanzo di P.D. James e presentato in concorso a Venezia 63. L’eroe incaricato di salvare il mondo, più apatico che mai, è Clive Owen nei panni di Theo, ex-attivista ed ex-compagno di Julianne Moore/Julian, ora capo dei Pesci (gruppo che si batte per i diritti degli immigrati). I figli degli uomini, nelle sale italiane con UIP dal 17 novembre, è dunque una riflessione sul nostro buio presente, più che una proiezione verso il futuro.
Perché Theo, l’eroe protagonista del film, è così apatico?
Quando era giovane Theo era pieno di speranza e fiducia e ha provato a cambiare il mondo, per poi accorgersi che la realtà ha cambiato lui. Nel film lo incontriamo quando è già completamente disilluso, quando ha perso la speranza e ha l’ultima opportunità per recuperarla. Io che sono cresciuto nella generazione a metà tra gli hippies e i no-global – una generazione di merda in cui il mondo è caduto nella tentazione del consumismo – mi identifico con la sua voglia di cambiamento.
Jasper, interpretato da Michael Caine, è invece un ex-hippy ancora ottimista e fiducioso.
Esatto. Quando gli ho proposto il ruolo, Caine mi ha detto che immaginava Jasper come un John Lennon invecchiato, e l’idea mi è piaciuta molto. E’ stato divertente assistere alla prova trucco, la moglie stentava a riconoscerlo.
Il film è tratto dal romanzo omonimo della scrittrice P.D. James. Quanto si discosta dal libro?
Abbiamo usato il romanzo solo come uno spunto per poi creare un’atmosfera, uno spirito del tempo in cui si riflettesse l’inquietudine di vivere in una democrazia che sembra una dittatura.
In I figli degli uomini l’unico paese “sotto controllo” è la Gran Bretagna, perché questa scelta?
Fondamentalmente perché è un’isola, per sottolineare il concetto di distanza dal resto del mondo. Infatti avremmo potuto ambientare il film anche in paesi come l’Islanda o la Nuova Zelanda. Ma non è importante dare spiegazioni precise, perché il tutto deve avere una dimensione metaforica.
Quale?
Un viaggio nello stato attuale delle cose, dove vige, appunto, una dittatura della democrazia.
Tra i suoi prossimi progetti si parla di Mexico ’68, sulla rivolta studentesca di Città del Messico che fu repressa in un bagno di sangue.
E’ un’idea che sto coltivando e che probabilmente realizzerò tra breve, ma non sarà il mio prossimo film: dopo I figli degli uomini non me la sento di parlare subito, di nuovo, di eventi tragici.
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