TORINO – In un festival in cui si è parlato molto di morte e malattie terminali, dall’americano 50/50 al francese La guerre est déclarée, ci sta benissimo The Descendants di Alexander Payne che tratta l’argomento con un tocco delicato e, a tratti anche molto buffo. il film, tratto dal romanzo della scrittrice Kaui Hart Hemmings, è la storia di Matt King (un George Clooney intenso e malinconico), ricco avvocato bianco ma discendente di una principessa hawaiana. A cambiare la sua vita arriva un incidente sportivo che riduce sua moglie in coma e l’uomo, che fino al giorno prima si è dedicato al lavoro trascurando i suoi affetti, si trova a fare i conti con le due figlie, la piccola e anticonformista Scottie e la maggiore Alex, diciassettenne che aveva litigato con la mamma dove aver scoperto che questa aveva un amante e stava per chiedere il divorzio. Ma i temi dell’elaborazione del lutto – fuori da ogni accanimento terapeutico, la donna viene lasciata morire rispettando il suo testamento biologico – si intrecciano con quelli della difesa della natura incontaminata di quelle isole. Perché l’avvocato King è depositario, insieme a una torma di cugini, di una splendida spiaggia che sta per essere venduta per diventare un resort di lusso con campo da golf e centro commerciale.
Pensa che la cura per le persone possa andare di pari passo con la cura del nostro pianeta, magari rinunciando a qualche milione di dollari per difendere un patrimonio ideale anziché materiale.
Mi piace questo aspetto ecologista del romanzo, anche se non volevo trasmettere alcun messaggio. Stiamo cementificando tutto il pianeta e ogni volta che ci penso, mi viene sempre in mente la locusta vive 17 anni sotto terra e poi viene all’aria aperta. E magari quando decide di uscire, sbatte la testa contro le fondamenta di un edificio.
Le Hawaii sono davvero un luogo straordinario e abbastanza inedito al cinema, specie in questa versione tutt’altro che turistica.
Non sono hawaiano e mi sono reso subito conto, andando lì, che è un luogo speciale soprattutto dal punto di vista sociale e umano, ancor più che paesaggistico. È una terra remota attraverso cui passa tutto il mondo. E’ contemporaneamente provinciale e cosmopolita. Ho dovuto usare un approccio documentaristico e mi sono anche lasciato guidare dalla scrittrice, perché io non ne sapevo molto.
E’ stato difficile tenere insieme le varie linee narrative di una struttura complessa?
C’è la storia intima di un personaggio che si risveglia e una storia di relazioni in una famiglia allargata, ci ho lavorato sia in fase di scrittura che di montaggio. Ma non è necessariamente un film molto profondo, è una commedia, una commedia leggera. Che per me si riassume nella scena in cui lui getta le ceneri della moglie nel mare e dice alle figlie: “bene, è tutto qui”.
Come mai ha scelto George Clooney?
L’avevo già incontrato sette anni fa, perché voleva un ruolo in Sideways, ma non era adatto. E’ una delle star americane che mi piacciono e in questo caso è stato perfetto per il personaggio, nei film precedenti l’avevo sempre visto un po’ distaccato e qui mostra la sua vulnerabilità. È un uomo molto buffo, come si era visto nel film dei Coen, nella vita reale è proprio simpatico, quasi un comico. Un po’ mi ricorda Marcello Mastroianni o Cary Grant, esseri umani capaci di naturalezza e poco interessati al loro statuto di star, uomini che non passano la giornata in palestra o a guardarsi allo specchio.
Clooney le ha ricordato Jack Nicholson, che aveva diretto in “About Schmidt”?
Entrambi sono facili da dirigere, diversamente da quello che si potrebbe pensare delle grandi star. Nicholson è come una Maserati, appena sterzi un po’, parte subito in quarta, ma se correggi la direzione, ti segue. E poi stringere la mano a Jack, per un appassionato di cinema come me, è come stringerla a Polanski, Antonioni e John Huston.
Il suo cinema deve molto ai classici.
Sono nato nel ’61 e sono cresciuto guardando vecchie commedie americane e cinema indipendente degli anni ’70. A quell’epoca andavo al cinema tre volte a settimana con gli amici e vedevo qualsiasi cosa. Il mio gusto si è formato lì.
Lei è greco di origine, che rapporto ha conservato con il suo paese e come vede la situazione attuale.
Poche settimane fa sono stato al festival di Tessaloniki. Anche se sono greco di seconda generazione, perché i miei genitori sono nati in America, ho conservato un forte legame con la mia terra d’origine e mi turba vedere quello che sta succedendo. 14 cugini sono venuti da Atene a trovarmi e mi hanno raccontato di questa situazione tremenda. E’ vero che hanno ancora il mare, il cibo e il senso della famiglia, ma credo soprattutto che una risposta alla crisi sia da trovare nella ricerca della bellezza, del divertimento e del coinvolgimento: sono gli artisti che possono fare qualcosa. Spesso i bei film nascono nei momenti peggiori. Come è successo in Romania dopo Ceausescu quando c’era bisogno di metabolizzare i fantasmi, oppure nell’Iran di oggi. Nella Spagna della dittatura si facevano splendidi film metaforici come quelli di Saura o Berlanga, dopo la fine del franchismo è arrivato Almodovar a dire: divertiamoci e scopiamo.
Sono passati sette anni da “Sideways”, ne passeranno altrettanti per vedere il suo prossimo film?
Il tempo passa veloce, quando scrivi. Ma stavolta ho già due sceneggiature pronte: la storia on the road di un padre e un figlio nel Nebraska e un’altra ispirata a un fumetto dell’autore di Ghost World.
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