Al cinema ‘L’uomo di argilla’: quando l’arte libera tutti

Acclamata in Francia come film rivelazione degli ultimi anni, arriva in sala il 13 febbraio l'opera prima di Anaïs Tellenne, con Emmanuelle Devos e Raphaël Thiéry. L’attore: “a volte i silenzi sono i dialoghi più belli dei film”. L’intervista


“L’incontro che c’è  tra il mio personaggio e quello interpretato da Emanuelle Dévos è simile a quello tra me e Anaïs, la regista del film, che ha portato ad una conoscenza davvero profonda”.

Il film di cui parla Raphaël Thiéry è L’uomo di Argilla, l’opera prima della regista francese Anaïs Tellenne presentata alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che ha conquistato il cuore della critica e del pubblico d’oltralpe al punto da venir definito il “film rivelazione” degli ultimi anni. Incontriamo il vulcanico attore a Palazzo Farnese, durante il tour di presentazione tra Roma e Bologna, alla vigilia dell’attesa uscita nelle sale italiane con Satine Film, il 13 febbraio.

Roma, Raphaël Thiery sulla terrazza dell’ambasciata di Francia a Palazzo Farnese

 

“Anaïs (Tellenne, ndr) mi aveva visto recitare in Rester Vertical di Alain Guiraudie e aveva detto ‘voglio dirigere questo attore’: quindi ci siamo incontrati, e nel corso di cinque-sei anni abbiamo realizzato insieme tre cortometraggi”, continua Thiéry, straordinario protagonista del film. “Ma non è stato soltanto un lavoro sul set, ci siamo visti e ne abbiamo ragionato parecchie volte. Sicuramente non ci siamo nascosti nulla nel corso di questi anni di lavoro insieme, è nata una fiducia reciproca molto forte e a un certo punto c’è stata l’idea di realizzare questo film: fin dall’inizio abbiamo parlato molto di quello che ci sarebbe piaciuto, avremmo voluto e avremmo o non avremmo potuto fare. Ne abbiamo parlato davvero tantissimo, al punto tale che quando abbiamo iniziato le riprese lei non mi ha ‘rubato’ niente, tutto quello che c’è nel film io l’ho dato volentieri: tutto già talmente chiaro, la scrittura della sceneggiatura aveva impiegato talmente tanto tempo e tappe che quando sono arrivato sul set era già tutto chiaro, proprio in virtù di questo rapporto di estrema fiducia”.

La storia

Raphaël (Raphaël ThiéryPovere creature, Le vele scarlatte, Rester Vertical) è una sorta di gigante buono con un occhio bendato che fa il custode con la vecchia madre in un castello ormai disabitato nella regione francese della Borgogna. La routine delle sue giornate trascorre tra le prove e i concerti con la cornamusa, la caccia alle talpe e la bizzarra relazione con la postina del paese: finché una notte, durante un violento temporale, nel maniero di famiglia si presenta improvvisamente Garance (Emmanuelle Devos – I Profumi di Madame Walberg), l’artista ereditiera, la misteriosa ‘signora in blu’. Da quel momento per Raphaël niente sarà più come prima.

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“Dallo sguardo di un artista sul suo soggetto nasce un’opera. Ma che ne è del soggetto? Cosa resta di questo sguardo?” Sono le domande che pone la regista nel presentare L’uomo di argilla: nel film, infatti, Raphaël stesso è l’opera d’arte. La sua personalità viene alla luce in maniera estremamente poetica e profonda, attraverso lo sguardo e le mani dell’artista e attraverso la statua stessa: una trasformazione che è anche una rinascita. Quanto conserva di tutto questo l’attore Raphaël?

“Ogni volta che si terminano le riprese di un film si conserva sempre qualcosa del personaggio che si è interpretato, che poi serve anche a crescere per calarsi in nuovi ruoli diversi. Sicuramente in questa è stata un’esperienza davvero particolare, anche perché il mio personaggio è qualcuno che accetta di mettersi a nudo non solo fisicamente, ma soprattutto emotivamente e mentalmente: è la storia di un uomo che accetta di svelarsi totalmente di fronte ad una donna che conosce davvero molto poco. Quindi è stato un lavoro molto intenso, che ho conservato. E anche se è chiaro che il personaggio del film non sono io, è anche vero che c’è molto di me in Raphaël: quindi stavolta per me è stato molto complicato mettere la giusta distanza fra me e lui, soprattutto mentre giravamo due o tre scene in particolare mi sono dovuto sforzare per dirmi ‘quello non sono io, quello è il personaggio’, è la prima volta che mi capita di doverlo fare, da quando faccio questo mestiere”.

Nel film i silenzi sono molto più lunghi dei dialoghi, lei si esprime soprattutto con il corpo e con gli sguardi, in maniera incredibilmente efficace: come si riesce, senza parole, a raggiungere un livello così alto di empatia davanti alla macchina da presa?

“Io credo che i silenzi siano i dialoghi più belli di alcuni film. Ho spesso l’impressione che a volte alcuni dialoghi scritti in una sceneggiatura siano quasi un commento all’azione che l’attore compie. In realtà se togliamo quelle parole il messaggio arriva lo stesso: nel senso che a volte non ce n’è bisogno, è come se fossero ‘un di più’. Quello che io faccio è cercare di trasmettere le cose con uno sguardo, un sorriso, un’espressione del viso: anche le frasi più belle del mondo o scritte meglio forse a volte si riescono a trasmettere benissimo guardando semplicemente la macchina da presa e muovendosi, spostando gli occhi, sorridendo appena. Mi piace molto che ne L’uomo di Argilla i silenzi diano proprio il ritmo al film, così come la musica: perché Raphaël ha la sua musica, non solo quella che suona con la cornamusa, ma la musica dei suoi pensieri e delle sue azioni, e anche Garance ne ha una sua, quando lavora con le mani alla scultura. E le loro rispettive musiche dicono tanto di loro: a volte col silenzio o con quella musica sappiamo che Raphaël è assorto nei suoi pensieri, mentre la musica dell’artista ci dice che lei in questo momento sta lavorando alla sua opera, come ci racconta bene il montaggio finale, che ha “asciugato” molto i dialoghi superflui”.

Il suo ultimo ruolo da protagonista, prima de L’uomo di Argilla, è stato in una coproduzione italo-francese, Le vele scarlatte, di Pietro Marcello. Poi ha lavorato in un altro film, Le domaine, di un regista italiano, Giovanni Aloi, anche se non da protagonista. Ha trovato qualche punto in comune nella cura della fotografia, nei tempi, nel loro modo di girare e quello di Anaïs Tellenne?

“Sicuramente tra il film di Pietro (Marcello, ndr) e quello di Anaïs ci sono delle analogie, e non solo quella che il protagonista fa lo scultore… La cosa che accomuna il lavoro con questi due registi è proprio che il mio rapporto con entrambi è basato su una grande fiducia reciproca: nel film di Pietro, ad esempio, c’erano tanti dialoghi scritti, e quando li leggevo spesso dicevo ‘no, questa non la voglio dire’ o ‘questa non la so dire’, e lui: ‘fai come vuoi e poi vediamo’… e in effetti alla fine ha capito che io riuscivo ad esprimermi anche solo con dei gesti delle mani, con degli sguardi, e abbiamo tolto molti dei dialoghi. E su quel film, in effetti, ho scoperto per la prima volta anche la relazione molto stretta che c’è tra un attore e il direttore della fotografia: in Le vele scarlatte ce n’era uno straordinario, Marco Graziaplena, e lì ho capito veramente quanto conta il suo ruolo. È chiaro che l’attore ha una sinergia con tutti, ma lì ho scoperto come si arrivi a formare proprio un ‘duo’ col direttore della fotografia, e a quel punto, avendo capito l’importanza del suo lavoro, anch’io agivo di conseguenza. Per quanto riguarda il modo di lavorare di Pietro e Anaïs, indubbiamente simili, c’è da dire che essendo il primo film per Anaïs lei era molto esigente e ha voluto girare tantissimo materiale, perché voleva avere molte cose a disposizione… quindi da quel punto di vista all’inizio delle riprese lei era ovviamente molto più concentrata, mentre Pietro molto più ‘disteso’: con lui giravamo solo il pomeriggio, lavorava molto d’istinto, forse questa è stata l’unica differenza. Invece con Giovanni è stato totalmente diverso: sicuramente mi ha dato tantissima libertà, mi ha detto ‘fai come vuoi’, ‘improvvisa’, e io veramente mi sono lasciato andare, godendomi a pieno quest’improvvisazione, anche se aveva un modo completamente differente di girare, con tante carrellate e travelling che io non avevo mai fatto… Poi c’è anche da dire che nel suo film, a differenza di quelli con Pietro e Anaïs, io non avevo un ruolo del protagonista, quindi passavo molto meno tempo sul set… Detto questo, in un modo o nell’altro ho trascorso quasi due anni a lavorare con registi italiani.

Se nel film l’arte è la vera protagonista, lo è anche l’arte musicale. Parlo delle scene toccanti che la vedono suonare la cornamusa, nella piscina vuota e altrove, in brani che ha composto lei stesso per il film.  Quanto è vicino tutto questo a ciò che accade nella sua vera vita? Può parlarci di quanto è stato ed è tuttora importante il suo rapporto con la musica, e con l’arte in generale?

“Io credo che l’espressione dell’attore attraverso la recitazione sia anch’essa una forma d’arte, e io anche in questa ho molto osato, come ho osato nella musica. Perché io non ho fatto né la scuola di musica né quella di recitazione, ma mi sono buttato e animato spinto soprattutto dalla curiosità di fare. Completamente autodidatta, dividendomi tra queste cose e l’attività di guardia forestale. Per me l’arte vuol dire mettercisi e farla, sperimentare. È questa stessa curiosità che mi ha portato a scoprire la musica, la cornamusa, poi il teatro, il cinema… Perché nell’arte c’è tutto: c’è la ricerca, c’è l’istinto, ci sono i sentimenti, e tutte queste cose devono tenersi insieme. Io penso che l’arte, qualunque forma d’arte, appartiene all’artista che la realizza per quel momento, dopodiché appartiene a tutta l’umanità, diventa di tutti: perché nel momento in cui è spettatrice, può godere di un’opera d’arte, è l’umanità stessa a fare arte, ad essere partecipe di questa creazione artistica, senza confini geografici o sociali“.

Quali sono i suoi prossimi progetti?

“Sicuramente le proposte attoriali non mancano, ma adesso, alla mia età, cerco di scegliere solo i progetti dove mi sento a mio agio, nei quali mi riconosco: ci saranno quattro o cinque film nel 2025 dove ho dei ruoli secondari, poi ci sono delle riprese di un altro progetto in primavera, poi ho anche scritto una mia sceneggiatura. Quando ho visto Anaïs scrivere questo film, a casa mia, dove ci vedevamo spesso quando scriveva, a me sembrava fantascienza, qualcosa di lontanissimo dalle mie capacità: e invece guardando lei farlo, mi sono detto ‘perché no’, e l’ho fatto, ho scritto questo film, sono alla ricerca di un produttore, magari anche italiano, chissà…”

autore
12 Febbraio 2025

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