TORINO – “Sono passati trent’anni da quel mattino che ho fatto quel provino che mi ha cambiato la vita…” così apre in voce Noi ce la siamo cavata e la voce, fuori campo, con la vita reale presente che scorre in immagini, è quella di Adriano Pantaleo (lo Spillo della serie Amico Mio, 1993-98), allora nemmeno otto anni – “la stessa età e le stesse orecchie a sventola che ora c’ha mia figlia Margherita” – quando quel provino lo portò a indossare i panni di Vincenzino.
“Mi hanno chiesto diverse volte nel tempo di fare qualcosa, ma ne ero sempre ancora troppo coinvolto, fino a che ho incontrato Giuseppe Marco Albano (il regista), per cui la distanza era a quel punto sufficiente, oltre alla ricorrenza dei 30 anni dal film, e così mi sono lanciato in questo viaggio tra ricordi che ricordavo e altri che non ricordavo di avere. È stata una grande seduta di analisi: quando hai un’esperienza così potente tante cose le hai rimosse, ritrovarle, raccontarcele, è stato emozionante, è un film che sento particolarmente”, racconta Adriano Pantaleo.
È stato “un caso”, letterario prima, cinematografico poi: Io speriamo che me la cavo – libro scritto dal maestro Marcello D’Orta, film diretto da Lina Wertmüller – nel 1992, quando uscì, dette a Paolo Villaggio, nella parte del maestro, l’opportunità di un ruolo emotivo, indulgente, malinconico, a cui l’attore ha saputo donare un’interpretazione commovente.
Io speriamo che me la cavo è stata “l’esperienza più formativa di tutta la mia carriera: siamo stati preparati per due mesi con un coach, questo già rende l’idea; di questi due colossi – Wertmüller e Villaggio – mi sono portato dietro rigore e professionalità; con Lina mi sono incontrato poi molte volte nella vita, passavo sotto casa sua a Piazza del Popolo a Roma, suonavo e salivo a chiacchierare: quando aspettavo Margherita, la mia prima figlia, sentii l’esigenza di dirlo a Lina e lei mi disse che anche il mio lavoro sarebbe cambiato, lì per lì qualcosa che non mi era ben chiaro, ma che adesso ho capito. Per Paolo, noi ci aspettavamo Fantozzi e invece c’era con noi un grande professionista, un uomo di rigore: sono cresciuto con una foto di Paolo Villaggio sul comodino, lui sul set con un cappotto, sotto la cui lunghezza spuntavano due gambine, erano le mie, per proteggermi dal freddo”.
Con lui, il maestro di Paolo Villaggio, come capofila dei piccoli alunni di quella 3B della scuoletta “De àmicis” del diroccato comune di Corzano, c’era dunque Pantaleo: tre decenni più tardi, co-sceneggiatore del doc nella sezione Fuori Concorso / Ritratti e Paesaggi del TFF, decide di andare a ritrovare i suoi ex-compagni, i piccoli attori di allora, cercando il racconto delle loro vite “nel frattempo”, così costruendo il film come un amarcord ma altrettanto come occasione per raccontare Napoli e il Sud e capire se anche loro “se la sono cavata”.
Pantaleo, ora adulto – come racconta – spesso ancora viene riconosciuto proprio per quel film “che mi porto nel cuore … però in tanti mi chiedono: ‘ma che fine hanno fatto tutti quei bambini?’ … se la sono cavata pure loro, oppure no?”. Così, in un vero porta a porta lungo tutto lo Stivale, Adriano citofona campanelli, bussa a porte, entra nelle vite di quei suoi compagnucci “scarrupati”, come li aveva affettuosamente definiti allora qualche articolo di giornale.
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