Il documentario A man fell di Giovanni C. Lorusso A Man Fell è nella programmazione delle Giornate degli autori, Notti veneziane 2024, a Venezia 81.
Il film racconta la vita quotidiana nel “Gaza Hospital” conosciuto come “Gaza Building”: ospedale alla fine degli anni Settanta e ora luogo di rifugio e sopravvivenza per generazioni di sfollati e rifugiati palestinesi. Qui vive il protagonista del film, l‘undicenne Arafat, che passa il tempo tra le rovine degli undici piani dell’edificio insieme al suo amico Muhammad, pensando a come esplorare i sotterranei proibiti, trovare qualcosa da fare, sopravvivere.
L’edificio è a Sabra, in Libano, nota a causa del massacro del 1982, un luogo in cui vicende passate e recenti si sovrappongono tragicamente fino al dramma di oggi.
Il film ha ricevuto il patrocinio di Amnesty International Italia con queste motivazioni:
“Sabra è un luogo tragicamente importante per chi si occupa di diritti umani: associato a quello di Shatila, ricorda il massacro feroce e impunito di migliaia di uomini, donne e bambini palestinesi avvenuto nel 1982. In un palazzo abbandonato di Sabra vivono lasciate a sé stesse tre, se non quattro generazioni di palestinesi, tra ricordi muti che si serrano tra gli sguardi delle anziane e un presente di stenti, ingegno per sopravvivere e poche speranze per il futuro. In questi tempi di eccidi senza precedenti della popolazione palestinese, la Storia chiama a ricordare, chi vorrà, che quel palazzo di Sabra avrebbe avuto ben altra destinazione senza l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi durante e dopo la nascita di Israele e a seguito dall’occupazione del 1967.”
“Parto sempre da luoghi che abbiano un certo interesse – dice il regista – senza l’idea precisa di un soggetto, lo costruisco attorno alle prime settimane di esperienza in loco. In questo caso tutto è partito dall’incontro con un barbiere palestinese, con cui ho fatto amicizia. Siamo della stessa generazione, ci piacciono il grunge e i Pink Floyd, mi sono trovato subito a mio agio. Dopodiché mi ha detto: vieni a vedere dove abito. E così ho avuto accesso al Gaza Building, che conoscevo solo come immagine spettrale, uno scheletro di cemento, che mi faceva paura. Lui conosceva tutti nei vari piani, così ho iniziato a parlare con la gente, e solo dopo dieci giorni ho iniziato le riprese, che sono durate per circa quattordici. Io dormivo un po’ lì e un po’ in un appartamento che avevo affittato. Cerco soprattutto l’immediatezza, per cui grossomodo, se si escludono le varie take, ho girato esattamente tutto quello che vedete nel film, come fosse un film d’animazione. Voglio rappresentare quello che io e i miei collaboratori sentiamo in quel preciso momento”.
Il film parte con un uomo che cade dal palazzo: “Sì, è accaduto dopo pochi giorni che ero lì. Ho sentito delle urla, ma non ci ho fatto troppo caso. Le urla sono una cosa abbastanza comune da quelle parti. Ma dopo qualche minuto sono arrivati i video, ciascuno con la sua angolazione, e ciascuno aveva una sua opinione o una teoria sull’accaduto. Era come avere un tabloid a portata di mano. Nel film racconto grossi drammi e piccole storie, come quella di un uomo che ha perso delle carte.
Ma il principio è sempre la mancanza di speranza e la miseria in cui queste persone sono forzate a vivere. So cosa è accaduto a quell’uomo ma non mi importa, mi interessavano più le reazioni dei coinquilini, l’odio che esprimevano nei confronti di questa persona, anche lui in una condizione disperata”.
Lavorando come un antropologo, Lorusso ha dovuto farsi accettare dalla comunità: “Il punto a mio favore – dice – è che vado sampre da solo. Sono vulnerabile, questo aiuta a farmi accettare perché non sono vissuto come un rischio, un gruppo o un’entità astratta. Le persone non vogliono sentirsi sfruttate, come quando le televisioni locali costruiscono servizi sulla miseria in cambio di qualche spicciolo. Ci sono due episodio che mi hanno fatto capire che ero sulla giusta strada. Il primo: non volevo parlare di droga, ma poi un uomo che fumava crack ha chiesto di partecipare, perché aveva capito che io raccontavo la verità. Il secondo: avevo dimenticato delle luci e mi sono state rubate. Dopo qualche giorno, il boss del palazzo me le ha restituite: il mio lavoro per loro era degno di rispetto. La stessa impressione ho avuto quando ho fatto una proiezione rough a Sabra: la comunità si è sentita rispettata e non sfruttata, e questo è il punto più importante del mio lavoro”.
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