90 anni fa il Codice Hays e il mito della censura: dall’America con Furore

La sigla “Codice Hays” richiama la “Caccia alle streghe” che avrebbe marcato gli anni ’50 nell’ossessione anti-comunista


13 giugno 1934: un innocente emendamento a un provvedimento adottato dalle Majors fin dal 1930 cambierà per oltre 20 anni l’immagine del cinema americano e la storia del cinema tout court. Lo firma l’oscuro e oscurantista Joseph I. Breen, eletto capo della neonata Production Code Administration, ma i principi a cui si ispira in forma restrittiva erano gli stessi fissati fin dal 1927 dal repubblicano William Harrison Hays, già coordinatore di una campagna elettorale, poi direttore generale delle poste e nominato nel 1922 (la prima volta di un politico) a capo dell’associazione dei produttori hollywoodiani, oggi MPAA.

La sigla “Codice Hays” risuona simile a quella “Caccia alle streghe” che avrebbe marcato gli anni ’50 nell’ossessione anti-comunista e per questo quel 13 giugno è un monito ancora attuale, tanto da aver ispirato nel 1991 una memorabile retrospettiva della Mostra di Venezia – “Prima de Codici 2” – ideata da Adriano Aprà e realizzata da Patrizia Pistagnesi e Steven Ricci. Ma cosa accadde 90 anni fa a Hollywood?

Tutto comincia già nel 1915 quando la Corte Suprema degli Stati Uniti decise che il cinema era pura industria e che quindi le opere dell’ingegno non potevano essere protette – come nel caso della stampa – dal Primo Emendamento come “mezzo di informazione della pubblica opinione”. Forti del giudizio federale, i comitati cattolici, le città e le contee della Costa Ovest cominciarono a picchiare forte contro l’“immoralità” dei film che arrivavano da un luogo spesso tacciato come la “Capitale del peccato”, aiutati dalla serie di scandali (memorabile quello della star Roscoe “Fatty” Arbuckle accusato della morte di una ragazza durante un festino degenerato in orgia) finiti a titoli cubitali sui giornali nazionali.

Il Codice Hays nasce insomma come una forma di difesa dell’industria contro il rischio di finire nella tagliola di una ormai imminente legge federale che non avrebbe tenuto conto della libertà creativa e del business. Per capire le ragioni di questa mossa, bisogna però ricordare com’era la Hollywood degli anni Venti: una terra di conquista dove avevano trovato casa immigrati, avventurieri, minoranze, piccoli impresari con grandi idee. Il successo di alcuni maestri – Griffith tra i registi, Tom Mix e Lilian Gish tra le prime star – consolidò in fretta la popolarità di un intrattenimento a basso costo e grandi risultati. Fu proprio questo rinnovamento del gusto ad attrarre i grandi capitali dell’Est che, in accordo con i maggiori produttori e una rete di sale sempre più nelle mani di pochi investitori, decretò un’inversione di rotta, destinata alla fine a far prevalere l’istinto di autoconservazione degli Studios. La prima censura nel paese della libertà fu quindi un’autocensura, presa per anni sottogamba da quasi tutti i registi e produttori, nonostante il pio Hays avesse fissato paletti molto chiari: “Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato. Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento. La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione”. L’autore poi prevedeva dettagli specifici contro il nudo, la violenza mostrata, l’empatia verso i cattivi, l’uso del linguaggio volgare (fattore determinante con l’introduzione del sonoro), l’evidenza di devianze come la droga, l’alcool (c’era ancora il proibizionismo), l’omosessualità, le perversioni, per esaltare invece la famiglia e la bandiera come valori fondanti.

Basta pensare ai film di gangster, agli eccessi lussuriosi di Stroheim e Von Sternberg, alla sensualità dei kolossal in costume per capire come tutto ciò fosse aggirato o ignorato per anni.

Nel frattempo però gli Studios avevano conquistato il controllo della distribuzione nazionale e qui le restrizioni del buon costume potevano fare molto più male a causa della sentenza della Corte Suprema. Ecco dunque la necessità di un giro di vite. Già nel 1933 l’ungherese Estasi fu tolto dalla circolazione a causa del nudo della protagonista (la futura Hedy Lamarr); l’anno dopo toccò all’innocente Tarzan e la compagna per una breve apparizione senza veli di Maureen O’Sullivan. Più tardi toccò anche a capolavori stranieri come Ladri di biciclette, Roma città aperta, Il miracolo, tenuti al margine dei circuiti commerciali o sottoposti a tagli mirati. Ma l’effetto fu dirompente per le produzioni nazionali, evidentemente limitate nei contenuti e nella rappresentazione. Fu l’epoca di John Ford, Howard Hawks, John Wayne, del cinema di propaganda (al tempo della guerra mondiale), della nuova commedia moraleggiante e del musical, del Noir chiamato a rimpiazzare il Gangster Movie per alludere senza mostrare. Una svolta sarebbe venuta più tardi, alla fine degli anni ’50 e di nuovo per seguire il mercato anziché l’etica: l’avvento della televisione costringeva gli Studios a innovare il linguaggio del cinema per mantenerlo appetibile, in quanto capace di mostrare ciò che era impedito sul piccolo schermo. La Corte Suprema si allineò quando il giudice William O’ Douglas sancì: ““Non abbiamo dubbi che le pellicole cinematografiche, così come i giornali e la radio, fanno parte di quella «stampa» la cui libertà di espressione è garantita dal Primo Emendamento”. Gli argini erano rotti nuovamente ed è proprio questo passaggio che liberò la fantasia e la creatività degli autori, capaci di affermare il proprio punto di vista anche contro la volontà dei produttori che, nel frattempo, erano stati privati del controllo dell’esercizio grazie alle norme antitrust. Pioniere della nuova era fu l’indipendente Roger Corman e dalla sua factory prese il via la “New Hollywood” degli anni ’70, capace di ridare linfa a un modello narrativo ormai estenuato. Il vecchio Codice Hays era di fatto già andato in pensione e il rito funebre fu celebrato in sordina nel 1968, rimpiazzato dal sistema dei “ratings” ancora in uso. La morale, nel bene e nel male, è che Hollywood riuscì sempre a tenere fuori dalla vicenda la politica e le leggi nazionali, appoggiandosi al diritto, alla giustizia, alla furbizia dell’autocensura quando le cose si facevano minacciose. Nemmeno il vecchio senatore McCarthy riuscì a spezzare questo tacito patto.

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09 Giugno 2024

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